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La SIF ricorda

Pietro Benigno

Pietro Benigno a Padova e a Palermo

 

Pietro Benigno a Padova
Lorenzo Cima

 

Il Presidente della SIF, che vivamente ringrazio, mi ha affidato il compito di tratteggiare il profilo di Pietro Benigno nel periodo padovano condiviso tra il 1951, quando ho iniziato a frequentare l'Istituto di Farmacologia diretto dal comune maestro Egidio Meneghetti, e la fine del 1956, quando venne chiamato a ricoprire la cattedra di Farmacologia nella facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università di Palermo.
A me, ormai decano emerito della scuola farmacologica patavina e già direttore per un decennio dell'attuale Dipartimento di Farmacologia ed Anestesiologia “E. Meneghetti”, il compito struggente di ricordare anzitutto il quinquennio di intensa attività di ricerca svolta nella sezione biologica del Centro di Studio per la Chemioterapia del CNR diretta da E. Meneghetti fino alla sua morte (1961).
Sull'onda dei ricordi cercherò quindi di parlare di Pietro Benigno semplicemente, affettuosamente, senza retorica. Nel vecchio Istituto ero entrato come assistente volontario nel 1951 divenendo straordinario nel 1954 e poi addetto al suddetto Centro proprio quando Benigno aveva vinto il concorso di “ricercatore” bandito dal CNR per dedicarsi esclusivamente a ricerche di chemioterapia venendo posto in congedo temporaneo dal Ministero della P.I. Nella concitata temperie del dopoguerra mi sono quindi trovato a convivere scientificamente gli albori della antibioticoterapia quando da tre anni Tito Berti mi aveva preceduto nelle indagini chemioterapiche che Benigno aveva già iniziate sui sulfamidici in pieno periodo bellico e successivamente sui composti inorganici e organici del mercurio e sui detergenti cationici e anionici.
Mi era stato facile inserirmi nel sodalizio già saldamente instaurato tra Benigno e Berti, con forti legami scientifici e umani, sia nella ricerca sui rapporti struttura-attività e sul meccanismo d'azione dei chemioantibiotici che nella passione per la verità, la libertà e la giustizia. Erano queste le peculiari caratteristiche scientifiche e morali del comune maestro Meneghetti che sulle prime si era perfezionato nell'Università di Gottinga e nell'Istituto Pasteur nella metà degli anni '30; delle seconde Berti ed io, dopo Benigno, potemmo apprezzare l'emblematicità solo a liberazione avvenuta, quando Meneghetti, come Rettore, riaprì l'ateneo patavino (31.07.1945) per ricominciare la sua opera nell'università “purificata e riconsacrata” insegnandoci con l'esempio e il contagioso entusiasmo come la dedizione al lavoro possa coniugarsi con altri aspetti accattivanti della vita.
In quell'atmosfera, la discussione che affrontava tutti gli argomenti e la prospettiva di una società più valida ed appassionata, contribuirono a far emergere quelle qualità naturali che hanno caratterizzato la profonda umanità di Benigno e di Berti. In Benigno spiccava peraltro un riserbo che lo rendeva schivo, non certo per timidezza, di notizie strettamente personali. Ad esempio, riandando al primo bombardamento aereo di Padova (16.12.1943) che aveva distrutto la famiglia del suo Maestro, si limitava ad aggiungere con bonomia che, mentre questi osservava con il binocolo dalla terrazza dell'Istituto le ondate degli incursori, egli si era rifugiato nella cappella Olivetari, affrescata da A. Mantegna, nella chiesa degli Eremitani a pochi passi dall'Istituto, poi distrutta nel secondo bombardamento.
Altro esempio: in occasione della preparazione del volume biografico di Chiara Saonara su “Egidio Meneghetti, scienziato e patriota combattente per la libertà” (CLEUP-Padova, 2003), avendogli chiesto di fornirmi testimonianze sulle dolorose vicende dei componenti dell'Istituto durante il periodo bellico, fu preciso ed esauriente su quelle di tutti, ma evasivo sulle proprie, tanto che a fatica riuscii a fargli confermare la sua iscrizione al Partito d’azione unitamente a Ugo Perinelli, entrambi assistenti. Precisò
l'arresto di quest'ultimo nel settembre 1944 e quello di Meneghetti il 7 gennaio 1945, mentre finse di non ricordare la data della sua carcerazione a Venezia: contemporanea o successiva (febbraio 1945)? Infatti si avvertiva in lui qualcosa che non si concedeva e nel suo sguardo intenso traspariva, velato da ironica bonarietà, il dissimulato orgoglio di una acuta intelligenza tipica di un vero gentiluomo siciliano intriso di prudenza e di riserbo.
Era invece estremamente preciso, concreto ed aperto nella ricerca sperimentale sviluppata nel dopoguerra quando, alla ripresa dei contatti con i centri di ricerca stranieri, venne assegnato all'Istituto un cospicuo grant della Rockefeller Foundation, cui seguì la prima pubblicazione di rilievo di autori italiani (il trio Benigno-Berti-Cima) sulla prestigiosa rivista “Antibiotics and Chemotherapy” (4,1143,1954): “Action of erythromycin alone and associated with oxytetracycline and penicillin on Staphylococcus aureus”.
Prima di lasciare Padova per Palermo, Benigno continuò a dirigere le ricerche d'indirizzo chemioterapico, sviluppate da Berti e da me, ma in tale occasione, con l'esemplare rispettosa correttezza che lo caratterizzava, volle segnalarmi nel suo curriculum quale allievo citando le mie prime pubblicazioni di unico autore, perché riteneva del tutto ingiustificata l'aggiunta del suo nome: unicuisque suum!
In effetti si trattava di tematiche che avevo preconizzato e che l'avevano favorevolmente colpito: le modificazioni nel metabolismo batterico per azione combinata di chemioterapici e la mia scoperta dell'influenza inibitrice, per antagonismo chimico, dell'idrazide isonicotinica sull'azione antibiotica della streptomicina, ma non della diidrostreptomicina.
Nel corso del successivo periodo palermitano i legami tra noi divennero sempre meno formali e sempre più affettuosi e scanzonati (mi chiamava Don Lorenzo e io lo chiamavo Pietro il Grande), rinunciando entrambi a entusiasmi scientifici (ormai fuori luogo e fuori tempo), sostituiti da incontri e scontri su tematiche attuali di natura etica, religiosa, sociale e neuropsicologica.
L'ultima lezione di stile la diede negli ultimi anni, quando commisurò ogni atto alla preoccupazione di “invecchiar bene”, ironizzando sul tanto daffare che illude anche gli uomini migliori sulla loro insostituibilità, come aveva fatto il nostro comune maestro al quale amava rifarsi con la seguente citazione: “Una tradizione, un costume, una umanità gli insegnarono anche a superare quella che, a chi ben rifletta, è una della maggiori difficoltà della vita, vero termine di paragone fra gli uomini: la prova della vecchiaia. Saper sobriamente invecchiare, rinunciando e gradatamente staccandosi da fisiologica aggressività dei giovani anni e da vigoria realizzatrice dell'età adulta; godere con pacata riservatezza i nobili ozi, senza ingombrare, senza pretendere, regolando al tempo stesso scontrosità amara per inevitabili disinganni e impudicizia irrequieta di mal sopite ambizioni”.
Pietro c'è riuscito in modo esemplare, sorridendo amabilmente quando a tanta seriosità gli contrapponevo l'icastico e sbrigativo aforisma di Maurice Chevalier: “Diventar vecchi non è poi tanto male se si considera l'alternativa”.
Conservo in un faldone, intitolato “Benignerie”, manoscritti e dattiloscritti “provocatori” che mi inviava per stimolare le mie osservazioni, anche impietose, che a sua volta contrastava o, bontà sua, accettava con semplicità ed estrema franchezza. L'ultimo è un dattiloscritto dal titolo “Il cervello umano, inventore della 'cultura', cioè dell'universo” il cui autore egli aveva metaforicamente adombrato in un “Anonimo del XXI secolo” e di cui suggerii la seguente integrazione: “Anonimo agnostico del XXI secolo”. Inizia così: “In un'età molto avanzata, troppo avanzata rispetto al tempo che mi resta ancora da vivere…” e, termina, da par suo, con questa chiusa: “A me non resta che ringraziare coloro che hanno completato la lettura di questo scritto, e anche se le scuse non potranno arrivare, pregare o sperare che coloro i quali lo hanno interrotto non ne vogliano all'autore”. È questo il vero autoritratto di Pietro Benigno felicemente invecchiato!
Rileggendo quest'ultimo testo e le mie chiose documentate, rivivo lo spirito dialettico che ha informato il nostro lungo, affettuoso rapporto con giocose schermaglie e, immancabile, la sua telefonata il 10 agosto (la notte delle stelle cadenti) di ogni anno: “Auguri, Don Lorenzo stella cadente, nonché probabile violinista cadente dal tetto” (con riferimento al celebre quadro “Il morto” di Marc Chagall); voleva alludere all'ineluttabile declino di entrambi come farmacologi, ma “doppio” nel mio caso in quanto comprendente anche quello collaterale, che argutamente riteneva implicito, di musicista.
Quest'anno la rituale telefonata è mancata: Pietro è infatti mancato 50 giorni dopo.
In occasioni come questa, Tito Berti amava ricordare le parole del comune maestro Meneghetti
“ai sentimenti profondi si addice il pudore del silenzio”, mentre io, da collega e amico indiscreto e anticonformista - come mi vedeva e come mi voleva – preferisco chiudere questo ricordo, senz'ombra di retorica ma profondamente commosso, con il mio solito saluto scanzonato: “Ciao Pietro, un abbraccio da Don Lorenzo”.

 

Pietro Benigno a Palermo
Natale D’Alessandro

 

Il 28 settembre scorso è venuto a mancare il Professore Pietro Benigno. Palermitano di nascita, classe 1918, è stato un personaggio amato e stimato da quanti hanno avuto la fortuna di conoscerlo.
È stato una figura autorevole ed un fondamentale punto di riferimento tra i farmacologi, e non solo; questo derivava dalla sua preparazione e competenza e moltissimo anche dalla sua saggezza, maturata in lunghi anni di esperienza, talvolta difficili.
Il suo carattere mite nulla toglieva alla sicurezza e alla fermezzadi chi aveva le idee chiare; l'atteggiamento sempre cortese, talora solo apparentemente formale, lasciava sempre trasparire il profondo rispetto per gli altri e per le loro idee.
Dopo aver frequentato come allievo interno l'Istituto di Fisiologia Umana dell'Università di Palermo, allora diretto dal Professore Camillo Artom, eminente biochimico, continuò gli studi di medicina a Padova. Va ricordato che in quei tempi, per motivi razziali, al Professore Artom vennero di fatto preclusi i rapporti con altri scienziati che abitavano all'estero e che questi rapporti poterono essere mantenuti tramite il giovane Benigno.
Laureatosi in Medicina e Chirurgia a Padova nel 1941, cominciò a frequentare l'Istituto di Farmacologia diretto dal Professore Egidio Meneghetti e nel 1942 venne nominato Assistente. Partecipò in Veneto alla lotta di liberazione in qualità di resistente e venne anche imprigionato dai fascisti; nei suoi lunghi anni d'insegnamento, in un giorno di aprile, soleva sempre dedicare una lezione per spiegare ai giovani quegli anni e il significato della resistenza.
Il periodo padovano fu sicuramente molto importante per il Professore Benigno: successivamente, mantenne sempre un'alta devozione per l'amato Maestro Meneghetti e stretti rapporti con i rappresentati della sua Scuola, in particolare di indissolubile amicizia con l'indimenticabile Professore Tito Berti.
Nel 1950 frequentò l'Institut du Radium di Parigi dove, lavorando nei laboratori di Joliot-Curie e Lacassagne studiò l'equilibrio del potassio negli organi isolati. Nel 1955 vinse il concorso a cattedra e per un anno insegnò Farmacologia presso la facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università di Sassari. Nell'anno accademico 1956-57 venne chiamato a ricoprire la cattedra di Farmacologia della
Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università di Palermo. Si dedicò allora con cura costante alla riorganizzazione dell'Istituto di Farmacologia danneggiato dagli eventi bellici e cominciò a scegliersi i collaboratori, alcuni dei quali sono tuttora in cattedra.
La sua dedizione all'Istituto era totale: arrivava prestissimo al mattino e vi permaneva l'intera giornata. Anche nei suoi ultimi giorni continuava a chiedere notizie sull'andamento del “suo Istituto”. Ha guidato gli allievi nella ricerca insistendo sul metodo e ammonendo che la verità scientifica va conquistata con scrupolo, ma anche con cautela, nella consapevolezza che nella scienza medica le acquisizioni dell'oggi possono essere cambiate da dati successivi. Agli allievi è stato sempre umanamente vicino, con paterna sollecitudine nei loro momenti più difficili.
La ricerca scientifica del Professore Benigno va dallo studio dei meccanismi d'azione dei chemioterapici, campo nel quale fu un pioniere, alla neurofarmacologia e ai farmaci dell'apparato cardiovascolare. Per impulso del Professore Benigno, alcuni ricercatori con a capo il Professore Luciano Rausa vennero verso la fine degli anni sessanta coinvolti in progetti di ricerca nazionali, aventi per oggetto il settore, allora quasi agli albori, dei farmaci antiblastici.
Eletto Preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università di Palermo nel 1969 mantenne tale carica per 12 anni consecutivi, distinguendosi ancora per il suo grande equilibrio.
In tale qualità dovette affrontare e gestire con tatto e buonsenso i movimenti studenteschi degli anni 1968 - 1970 ed il loro regime assembleare. Collaborò anche alla realizzazione dell'aula “Maurizio Ascoli” del Policlinico di Palermo e alle lunghe e faticose pratiche necessarie per la prestigiosa acquisizione del palazzo Steri-Chiaramonte, quale sede centrale dell'Università di Palermo. Fu Pro-Rettore dell'Università di Palermo dal 1984 al 1993.
È stato Direttore Responsabile di “Federazione Medica”, organo di aggiornamento scientifico e professionale della Federazione Nazionale dell'Ordine dei Medici, revisore di prestigiose riviste di farmacologia e Direttore della scuola internazionale di Farmacologia del Centro di Cultura Scientifica “Ettore Maiorana” di Erice. Nel 1999 gli fu conferito il Premio Galeno Italia alla carriera.
In tarda età, Professore Emerito, si dedicò con giovanile entusiasmo alla realizzazione di un ponderoso e accuratissimo dizionario di termini medici dal titolo “Lessico medico italiano”.
Il Professore Benigno possedeva un innato senso di correttezza, di onestà e di aristocratica
riservatezza, tipiche del gentiluomo di vecchio stampo, che ispirava rispetto in coloro che lo avvicinavano. Di lui si ricorderanno sempre la vivida intelligenza, l'arguzia, la visione della vita insieme serena e disincantata e l'eticità laica, secondo la quale la norma morale va rispettata a prescindere dai comandamenti religiosi. A tale eticità laica, egli inspirava ogni suo atteggiamento nei confronti della vita e del mondo.
In questo commosso e insieme dolce ricordo, gli allievi sono vicini al dolore dei suoi carissimi, la Signora Gianna, la figlia Anna e i nipoti Francesco e Cristina.

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