Diossina in Italia: una riflessione da parte della Società Italiana di Farmacologia"
Le policlorodibenzodiossine (PCDD) e i benzofurani policlorurati (PCDF) sono forse la classe di sostanze più interessanti della tossicologia negli ultimi cinquant’anni, da decenni al centro di una saga nella quale lo sviluppo delle conoscenze scientifiche s’incrocia con l’attualità, la politica e la storia. Peraltro la definizione degli effetti biologici e del meccanismo d’azione delle PCDD e PCDF è un esempio di successo della ricerca tossicologica, reso possibile dagli sforzi coordinati della comunità scientifica e da robuste immissioni di fondi di ricerca.
All’inizio degli anni ‘70 la chimica dei contaminanti policlorurati organici appariva estremamente complessa, perché i PCDD hanno 75 isomeri, i PCDF 135, non considerando le varianti polibromurate e i composti misti cloro-bromurati. Per fortuna gli avanzamenti della spettrometria di massa hanno consentito di risolvere almeno le problematiche analitiche. Il composto più tossico della serie è la 3,4,7,8-tetraclorodibenzodiossina (TCDD), nota come “diossina” senza specificazioni.
La previsione degli effetti tossicologici degli isomeri di PCDD e PCDF è stata possibile grazie all’utilizzo delle unità TEQ (o TEF), toxic equivalent quotient (fraction), che permettono di “normalizzare” l’effetto di mescolanze complesse di isomeri moltiplicando le concentrazioni misurate per l’attività biologica specifica, espressa come frazione (es. 0.1 … 0.01 ecc) rispetto al composto più tossico, la TCDD, a cui si attribuisce un valore di TEQ uguale ad 1.
Un po’ di storia
La “diossina” salì agli onori della cronaca nel lontano agosto 1971, quando per abbattere la polvere in tre ippodromi e in alcune fattorie del Missouri furono spruzzati sul terreno 15 m3 di olio minerale contaminato con 300 ppm di TCDD. La TCDD nell’arco di qualche giorno provocò la morte di 63 cavalli da corsa e di un numero considerevole di cani, polli, uccelli e roditori e indusse effetti tossici di varia gravità nei residenti (Carter et al., Science, 188:738-40, 1975).
Il secondo episodio di contaminazione interessa direttamente l’Italia, perché avvenne a mezzogiorno di sabato 10 luglio 1976 nella cittadina di Seveso, in provincia di Milano, quando una valvola di sicurezza di un reattore chimico dell’Icmesa, un’associata della Hoffman La Roche, esplose durante la produzione di 2,4,5-triclorofenolo, liberando una quantità di diossina dell’ordine di 1-2 kg. La popolazione non fu immediatamente avvertita dell’incidente, ma in pochi giorni intorno all’Icmesa morirono 3300 animali domestici e non fu più possibile ignorare il problema. Nel periodo successivo tra i 1600 residenti della zona più contaminata (zona A, con concentrazione di TCDD nel terreno >50 µg/m²) furono diagnosticati 447 casi di cloracne, una forma di acne pustolosa descritta negli operai esposti a composti clorurati. Si creò così la coorte di Seveso, seguita fino ai nostri giorni dal valente epidemiologo milanese Pier Bertazzi e collaboratori. L’evento fu nel complesso disastroso, ma suggerì almeno la necessità di censire i siti industriali a rischio a livello europeo (direttiva Seveso, 1982), mentre la coorte di Seveso era destinata a divenire la sorgente più affidabile per lo studio degli effetti della TCDD sull’uomo.
Sempre in quegli anni furono esposti alla TCDD i soldati americani impegnati nelle operazioni di guerra chimica contro il Vietnam. Circa 80 milioni di litri di erbicidi clorofenossiacidi (2-4-D e 2,4,5-T, il cosiddetto“Agent Orange”) furono irrorati con aerei cisterna su una superficie di 2 milioni di ettari, per defoliare le foreste dove si nascondevano i Nordvietnamiti ed i Vietcong. L’”agent orange” era contaminato da TCDD e verso la metà degli anni ’80 il governo degli Stati Uniti, sotto la pressione dei veterani del Vietnam, portò a termine uno studio sugli effetti dell’esposizione sui soldati americani (Veterans and Agent Orange Report, Nat Acad Press, 1994). Nel rapporto un gruppo autorevole di tossicologi americani concludeva che le evidenze scientifiche erano sufficienti per correlare l’esposizione agli erbicidi contaminati da TCDD all’aumento di sarcomi dei tessuti molli, linfomi (non Hodgkin e Hodgkin), cloracne e porfiria tardiva nei veterani coinvolti nel programma “Ranch Hand” di deforestazione del Vietnam. Il peso mediatico dell’incidente di Seveso e della “sindrome da Agent Orange” fu notevole e spiega il forte impulso della ricerca in questo settore sia in Europa che in USA.
Una delle cause d’allarme dopo l’incidente di Seveso era l’estrema tossicità acuta della TCDD negli animali da esperimento: la DL50 è infatti variabile da specie a specie (0.6-2570 µg/kg, nella cavia e nel topo DBA2/2J, rispettivamente) ma decisamente bassa (International Agency for Research on Cancer, IARC, Monografia 69, 1997). Questa “aspettativa” sulla tossicità acuta della diossina nell’uomo ha portato anche ad un faux pas di alcuni servizi segreti: il non riuscito tentativo di assassinio del presidente Yuschenko in Ucraina nel 2004 (la DL50 per l’uomo non è nota, ma probabilmente più alta rispetto ai comuni animali da laboratorio; l’aggiunta di TCDD alla minestra di Yuschenko provocò cloracne, ma non fu sufficiente ad ammazzarlo).
Effetti della diossina
A dispetto dei cultori di tossicologia genetica, la TCDD non è mutagena nei procarioti e negli eucarioti, ma ha un effetto teratogeno e cancerogeno potente in tutti i mammiferi (a dosi intorno al µg/kg). E’ anche interessante il fatto che i tumori sperimentali da TCDD sono a carico dei più diversi organi ed apparati e che i livelli di TCDD negli organi degli animali da esperimento sono simili a quelli di popolazioni umane accidentalmente esposte (IARC, Monografia 69, 1997).
Che la TCDD avesse effetti cancerogeni sull’uomo era sospettabile per inferenza, ma solo nel 1977 la TCDD fu classificata come un cancerogeno umano con “evidenza limitata”. In particolare fu considerato importante il meccanismo molecolare (l’interazione con il recettore AhR) ritenuto responsabile dell’effetto cancerogeno. Nel 1977 era stato documentato che l’interazione TCDD- recettore Ah portava a variazioni di espressione dei geni dei citocromi P450, del metabolismo degli xenobiotici e della funzione immunitaria (Fernandez-Salguero et al., Science 268, 722-6,1995). Ricerche successive dimostrarono che la TCDD disregola un numero assai rilevante di geni, tutti fondamentali per il controllo dell’omeostasi cellulare e della trasformazione neoplastica come migrazione, riproduzione, differenziamento e risposta allo stress (Hodkins et al., Cancer Res., 66: 2224-32, 2004; Barouk et al., FEBS lett, 581: 3608-15, 2007).
La scelta della IARC di classificare come probabile cancerogeno umano la TCDD fu contestata in diverse sedi, ma è stata confermata da studi di coorti industriali e da indagini sulla popolazione di Seveso (Steenland et al., Env Health Persp, 112:1265-8, 2004). Nel caso di Seveso, grazie al lavoro del gruppo di Bertazzi, è stato possibile definire un effetto statisticamente significativo della TCDD sulla frequenza di diversi tipi di tumori, che a 15 anni dall’incidente dell’Icmesa non avevano rivelato deviazioni importanti; a distanza di 20 anni si è invece osservato un aumento della frequenza di tumori linfopoietici (odd ratio, OR: 1.7, confidence limits, CL: 1.2-2.5), nei maschi un aumento di tumori polmonari (OR: 1.3, CL: 1-1.7) e rettali (OR: 2.4, CL: 1.2-4.6); nelle femmine un aumento dei tumori del fegato (OR: 2.4, CL: 1.1-5.1) e dei tumori della mammella nei soggetti con livelli di TCDD più alti, (Warner et al., Env Health. Persp, 110: 103-125, 2002).
Diossina e smaltimento rifiuti
Veniamo adesso ai problemi dello smaltimento dei rifiuti. PCDD ed i PCDF sono prodotti da una serie molteplice di sorgenti e tra queste ci sono anche gli inceneritori di rifiuti solidi urbani e ospedalieri. Le misure analitiche eseguite in vari paesi del mondo nel periodo 1970-1990 hanno dimostrato che gli inceneritori emettevano quantità di PCDD e PCDF comprese tra alcune centinaia ed alcune migliaia di ng/nm3 espressi come TEQ. Quali sono stati gli effetti sulle popolazioni di queste emissioni? Gli studi epidemiologici internazionali non danno risposte univoche, il che è per certi versi ovvio, perché gli effetti variano in funzione delle caratteristiche dell’impianto, della localizzazione e del tipo di rifiuti inceneriti. Nella letteratura internazionale sono stati pubblicati pochi studi epidemiologici sull’argomento relativi al nostro paese. Uno di questi (Biggeri et al., Env Health Persp, 104, 750-4, 1996) dimostra un aumento della frequenza di tumori polmonari correlato ad un inceneritore nella città di Trieste. Un secondo, pubblicato recentemente dagli epidemiologi del Veneto (Zambon et al., Environm Health 6, 19, 2007) correla l’aumento di incidenza di sarcomi (OR 3.27, CL 1.35-7.93) all’ emissione di PCDD e di PCDF dagli inceneritori di un’ampia zona intorno a Venezia. E’ stato osservato da altri epidemiologi italiani che questi studi non sono facili e che spesso le variabili di confondimento e le dimensioni insufficienti del campione rendono impossibile trarre conclusioni statisticamente convincenti (Franchini et al., Ann Ist Sup Sanita, 40, 101-15, 2004).
La situazione è cambiata con gli inceneritori di nuova generazione, che hanno sistemi di controllo della combustione più efficaci e sistemi di filtraggio dei fumi e quindi emettono quantità variabili, ma decisamente basse, di PCDD e PCDF. Le stime disponibili al riguardo nella letteratura internazionale, ed in particolare le misure su impianti italiani, non sono però abbondanti. Secondo un lavoro di Ceserini e Monguzzi (Chemosphere, 48, 799-66, 2002) le concentrazioni di PCDD e di PCDF emesse dagl’inceneritori in Lombardia nel 1997 variavano da 0.064 a 7.5 /ngTEQ m3 (Busto Arsizio e Bergamo).
Nella discussione sugli effetti sanitari degli inceneritori devono essere considerati anche altri fattori. Sappiamo da almeno vent’anni che le PCDD ed i PCDF non sono prodotti solo dall’incenerimento dei rifiuti. Uno studio della situazione italiana, con precise stime al riguardo, si deve a Ceserini e Monguzzi, del Politecnico di Milano e della Fondazione per l’Ambiente della Lombardia (Chemosphere 48:779-86, 2002). Nel 1997 in Lombardia, secondo i loro calcoli, sono stati prodotti 33 g di TCDD (TEQ), di cui 10.5 da inceneritori di rifiuti solidi urbani, 8.6 dalle fornaci ad arco, 3 da veicoli diesel, 2.9 dalle industrie dell’alluminio, 2.6 dalla combustione residenziale di legno, 1.5 dai cementifici e 1 dalla circolazione automobilistica. Le altre sorgenti hanno un’importanza quantitativamente minore.
Questi dati dimostrano che gli inceneritori sono solo una delle fonti di PCDD e di PCDF. In altre parole, se domani in Italia fossero chiusi tutti gli inceneritori di rifiuti, il problema dell’esposizione a PCDD e PCDF rimarrebbe. Questo è ancora più certo nel caso della Campania, perché la combustione non controllata di rifiuti produce grandi quantità di PCDD e PCDF.
Gli inceneritori non sono benvisti dalle popolazioni che vivono in prossimità degli impianti. Questo è un fenomeno del tutto italiano, perché nella maggior parte dei paesi europei si usa incenerire i rifiuti solidi urbani molto più che da noi (ad esempio circa il 50% dei rifiuti sono inceneriti in Danimarca contro il 10% in Italia, European Environmental Agency, EEA, Report 2005). In Europa gli inceneritori sono spesso collocati nei centri abitati (ad esempio a Vienna), senza che queste scelte siano contestate dalle popolazioni. D’altra parte nei paesi del nord Europa il problema della contaminazione da POP (Persistent Organic Pollutants) è talmente sentito che una sezione speciale della società di tossicologia scandinava è dedicata al loro studio.
L’informazione
Esiste una via di uscita che possa metter d’accordo le comunità locali e gli amministratori affogati da montagne di rifiuti, ovviamente interessati a qualunque soluzione che faciliti lo smaltimento?
A nostro parere è necessario prima di tutto assicurare una corretta informazione. E’ scorretto sostenere che le PCDD ed i PCDF non hanno effetti tossici su popolazioni umane “perché la concentrazione ambientale è irrilevante”; infatti, questo è contrario all’evidenza scientifica e non si possono nascondere informazioni accessibili a tutti. E’ altrettanto scorretto affermare che l’importanza della esposizione ai PCDD e PCDF è trascurabile rispetto ad altri fattori di rischio come, ad esempio, il fumo di sigaretta. Il fumo di sigaretta è, infatti, un agente tossico potente che fa impallidire gli effetti di ogni altra sostanza.
E’ corretto invece incoraggiare tecnologie ed interventi sulle sorgenti di produzione al fine di ridurre l’esposizione a PCDD e PCDF. Nel 1993 i livelli di TCDD nel latte materno delle donne europee andavano da 30 pg TEQ /g di grasso in Belgio a 10 pg TEQ /g in Ungheria (EEA Report, 1995) e questi livelli non possono non essere fonte di preoccupazione.
Per ridurre la contaminazione ambientale da PCDD e PCDF è necessario operare in maniera integrata su tutte le sorgenti, ridurre e razionalizzare i trasporti, i processi di combustione industriale, proibire la combustione del legno (in UK è così da decenni) e nel contempo controllare le emissioni degli inceneritori chiudendo gli impianti che non rispettano gli standard. Non c’è dubbio, infatti, che le tecnologie si sono evolute e che i nuovi inceneritori di rifiuti solidi urbani emettono quantità modeste di PCDD e PCDF, ma controlli affidabili sono fondamentali perché le popolazioni hanno imparato a non fidarsi.
Le alternative
Esistono anche nuove soluzioni tecnologiche promettenti, poco discusse in Italia. Per esempio è possibile costruire impianti a plasma per la distruzione dei rifiuti, recensiti recentemente da Nature, (444, 262-263, 2006) con un editoriale che ha avuto scarsa eco nel nostro paese. Negli impianti a plasma archi voltaici sviluppano una temperatura di migliaia di gradi che “semplifica” le sostanze organiche e quindi annulla la produzione di persistent organic pollutants (POP). E’ stato costruito un impianto a plasma in Giappone, ad Utashinai, la cosiddetta “Eco Valley” ed uno simile da 2700 tonnellate/giorno è in costruzione a Atlanta, in USA. Altri sono in cantiere in Canada. Gli impianti a plasma, oltre a non emettere inquinanti, vetrificano i metalli pesanti e producono scorie inerti che possono essere usate per far strade o nell’edilizia e quindi risolvono anche un non secondario problema degli inceneritori (lo smaltimento delle ceneri tossiche).
In conclusione, una strategia composita di informazione corretta, riduzione della produzione di rifiuti, riciclaggio, controllo delle emissioni e nuove tecnologie (quelle a plasma appaiono particolarmente promettenti) ha le migliori prospettive per neutralizzare la resistenza ai nuovi impianti e avviare una più razionale politica dei rifiuti in Italia.
Prof. Piero Dolara, Ordinario di Tossicologia, Università di Firenze,
per la Società Italiana di Farmacologia,
approvata dal Consiglio Direttivo SIF in data 24 gennaio 2008