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1 settembre 2010

Le sperimentazioni cliniche tra scenari attuali, false credenze e prospettive future

Posizione della SIF

Le sperimentazioni cliniche tra scenari attuali, false credenze e prospettive future - Posizione della SIF

Introduzione al problema: perché è necessario stimolare la ricerca clinica in Italia
I dati dell’ultimo Rapporto Nazionale sulla Sperimentazione Clinica dei Medicinali parlano chiaro: Nonostante l’Italia sia il quinto Paese al mondo per consumo di farmaci, la stessa cosa non si può dire per gli investimenti in ricerca clinica. Analizzando i numeri forniti periodicamente dall’Osservatorio Nazionale sulla Sperimentazione Clinica (OsSC) si evidenzia che mentre il numero assoluto di studi (851 nel 2008) si attesta su un livello soddisfacente, c’è una criticità evidente per quanto riguarda gli studi di Fase I. 
Nel 2008 sono state infatti eseguite in Italia 46 sperimentazioni di fase I (di cui meno di 10 hanno riguardato volontari sani), un numero irrisorio se confrontato con gli oltre 200 studi eseguiti in Inghilterra e Germania, oppure i 150 svolti nella vicina Svizzera. Le ragioni possono essere innanzitutto di natura “storica”, legate agli ampi successi raggiunti dalle Università Italiane nella ricerca di base, e che hanno favorito lo sviluppo negli anni soprattutto delle sperimentazioni di tipo preclinico. Oltre a questo vanno poi sottolineate alcune innegabili mancanze di natura legislativa e burocratica (che oggi sono state sostanzialmente superate) che, assieme a problematiche di natura economica, hanno indirizzato le case farmaceutiche verso Paesi meglio organizzati e/o più competitivi economicamente (per es. India e Cina). 
Non si può tuttavia escludere che la scarsa partecipazione dell’Italia agli studi registrativi sui medicinali possa avere anche origini più di natura culturale e civica. Infatti, contrariamente a quanto avviene nel resto del mondo, gli italiani spesso guardano con sospetto le sperimentazioni cliniche. Sicuramente le campagne di disinformazione di una parte della stampa hanno contribuito a rafforzare la diffidenza degli Italiani nei confronti della ricerca clinica, fornendo a volte al cittadino informazioni incomplete e non corrette sulle sperimentazioni, soprattutto quelle di fase I, contribuendo a creare falsi allarmismi verso studi clinici che sono invece programmati e condotti secondo le rigide indicazioni dettate dalle agenzie regolatorie nazionali ed internazionali  (che rappresentano la fase più delicata di tutto il percorso che porta alla produzione di nuovi  medicinali). 
Questo documento, prodotto dalla Società Italiana di Farmacologia (SIF) , nasce proprio con lo scopo di fare un po’ di chiarezza sulle sperimentazioni cliniche con specifica attenzione alle sperimentazioni di fase I, e sulla loro importanza per la salute del cittadino.

Innanzitutto perché è importante fare sperimentazione sul farmaco?
Perchè è ancora l’unico metodo sperimentale, oggi, che consente alla comunità scientifica di  trovare nuove risposte ai sempre maggiori problemi che la medicina si pone nell’ambito degli interventi terapeutici farmacologici, inclusa la terapia personalizzata.

È bene innanzitutto rimarcare che la sperimentazione è vantaggiosa per il paziente, in quanto ai partecipanti allo studio viene spesso data l’opportunità di ricevere un monitoraggio più frequente e dettagliato del proprio stato di salute (aspetto questo che si applica anche ai volontari sani negli studi di fase I), e di avere l’accesso a terapie non ancora disponibili in commercio (che spesso poi rimangono disponibili al paziente anche al termine della sperimentazione). Inoltre la partecipazione a sperimentazioni policentriche internazionali favorisce lo scambio di esperienze con centri di ricerca esterni e la crescita professionale del personale medico/infermieristico. Il fare ricerca bene per di più costruisce un rapporto di interscambio e relazione paritetica tra sistema paese e big pharmaceutical companies. Questo rapporto oggi estremamente sfilacciato, permetterebbe anche alle agenzie regolatorie italiane di poter influenzare in modo positivo e nell’interesse collettivo la ricerca ed i comportamenti delle aziende farmaceutiche. Le sperimentazioni cliniche, infine, sono fondamentali per le strutture sanitarie (pubbliche e private) in quanto sono una fonte possibile di fondi utilizzabili per pagare il lavoro dei ricercatori e per l’acquisizione di nuove tecnologie che siano sempre all’avanguardia con il resto del mondo. 
Fino a qualche anno fa si sarebbe potuto obbiettare che le motivazioni riportate sopra potevano applicarsi solo agli studi di fase II-IV, mentre non avevano senso per le sperimentazioni di fase I. Va tuttavia sottolineato che le big pharmaceutical companiessempre più frequentemente oggi preferiscono appoggiarsi a centri che siano in grado di portare avanti tutte le fasi di sperimentazione di un nuovo medicinale, dal first time in man fino alla preparazione del dossier registrativo. Queste nuove strategie sono dettate dalla necessità di “coltivare l’expertise” sulle nuove molecole, contenere i costi e di mantenere una maggiore privacy dei dati sperimentali (meno centri vengono coinvolti e meno diffusione si ha dei dati confidenziali della molecola in studio). Questo vuol dire che d’ora in poi per continuare a fare studi di fase II-IV non si potrà più prescindere dalla necessità di implementare il numero di studi di fase I. Inoltre, particolare attenzione dovrà essere posta allo sviluppo degli studi di fase 0. Un accento va infine posto sull’arruolamento delle donne anche in età fertile, particolarmente basso nella fase I anche se in crescita (dal 22% del 1999  a circa il 27% del 2007 secondo dati FDA).

Quali rischi corrono i soggetti che accettano di partecipare a sperimentazioni di fase I?
La premessa fondamentale, che si applica non solo ai farmaci ma a qualsiasi sostanza somministrata nell’uomo, è che il rischio per la salute di chi li riceve non può essere mai nullo. Anche i farmaci autorizzati al commercio hanno rischi intrinseci di tossicità. 
Il problema della sicurezza sia dei volontari che dei pazienti che si sottopongono agli studi di fase I rappresenta tuttavia un ruolo centrale per il Ministero della Salute e per l’Agenzia Italiana del Farmaco (così come per la SIF). A conferma di ciò è bene ricordare che qualsiasi struttura pubblica che intenda eseguire una sperimentazione di fase I deve innanzitutto inoltrare una formale richiesta alla Commissione specifica operante presso l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) corredata da documentazione dettagliata sul farmaco in studio con i dati di tossicità preclinica. Indipendentemente dalla valutazione dell’ISS, la sperimentazione sarà sottoposta a valutazione dettagliata anche da parte del Comitato Etico del centro sperimentatore. Lo studio sarà avviato solo in presenza del parere positivo di entrambi gli organi valutanti. Attualmente in Italia, al contrario che altrove, l’attività di ricerca di fase I è tutta pubblica e quindi la sua gestione è indipendente dalle dinamiche economiche delle case farmaceutiche. Uno studio di fase I potrà quindi essere svolto solo se esisteranno contemporaneamente i presupposti metodologico-scientifici ed etici, indipendentemente da logiche di profitto.
Per richiamare anche alcuni concetti metodologici (e per fare un po’ di chiarezza), ricordiamo che per il calcolo della dose di partenza solitamente si considera la dose massima senza effetto nocivo del farmaco nella specie animale più idonea, divisa per un fattore di sicurezza che va da 10 a 100 a seconda del tipo di farmaco e del tipo di patologia. Quindi negli studi cosiddetti first in man, si parte sempre da dosi singoledecisamente subterapeutiche di farmaco, che poi vengono aumentate gradualmente e sotto stretto controllo medico. Tutto questo per salvaguardare la salute del soggetto (volontario o paziente) che accetta di partecipare ad una sperimentazione di fase I.

Ma esiste davvero il business delle cavie umane professioniste?
L’esperienza accumulata in oltre cinquant’anni di sperimentazioni farmacologiche ha fatto sì che, dall’esperienza della talidomide ad oggi, le regole siano diventate sempre più severe così come i controlli, per meglio tutelare la salute del volontario e del paziente. Questo è particolarmente vero in Italia: infatti la legislazione italiana richiede che un soggetto non possa partecipare a più di 2 sperimentazioni di fase I per anno, con un wash-out minimo da una sperimentazione all’altra di 6 mesi, laddove altri Paesi adottano criteri meno restrittivi (in Svizzera tale periodo è ridotto a 3 mesi e la media europea è di 4 mesi). In Italia è stata inoltre è in via di implementazione una rete con tutti gli archivi di ricerca in cui sono registrati tutti i volontari partecipanti alle sperimentazioni di fase I. E’ inoltre vietato il reclutamento di questi soggetti con annunci a mezzo stampa (cosa invece possibile per esempio in Inghilterra). Questo aspetto sottolinea la serietà ed il rigore scientifico con cui vengono svolte le ricerche cliniche in Italia rispetto ad altre realtà internazionali. Da quanto detto sopra é intuitivo capire che la figura di “cavia professionista” (giusto per citare un termine utilizzato talvolta da una parte della stampa non del settore) non sia applicabile alle disposizioni serie e rigorose che vigono in Italia. Nelle strutture italiane accreditate per gli studi di fase I vengono eseguiti test ad hoc per capire le motivazioni che spingono i volontari a partecipare a queste sperimentazioni. Contrariamente a quanto si pensa (o si scrive..) molto spesso questi soggetti sono persone motivate a contribuire alla ricerca da episodi dolorosi avvenuti a famigliari, amici, ecc. È sicuramente vero che , nel caso dei volontari sani, ai soggetti risultati idonei per lo studio viene riconosciuta una quota in denaro, il cui ammontare viene solitamente deciso dallo sperimentatore e sottoposto al vaglio del comitato etico. Tuttavia, tale quota non rappresenta uno stipendio ma un rimborso per il mancato guadagno per le giornate lavorative perse. Chi partecipa ad uno studio di fase I è infatti impegnato per tutto l’arco della giornata e solitamente per almeno 2-3 giorni.

Che senso ha fare gli studi di fase I nel paziente?
Come sottolineato in precedenza, gli studi di fase I hanno l’obiettivo primario di rispondere alla domanda: quanto farmaco può essere somministrato senza causare effetti avversi gravi? Storicamente questi studi sono sempre stati eseguiti nel volontario sano. Tuttavia, per il futuro si prospettano scenari diversi, con una progressiva sostituzione degli studi di safety sul volontario a favore sia di un potenziamento di fasi di transizione pre-clinica/clinica in silico (con modellistica ad hoc), che di un maggior coinvolgimento del paziente nelle fasi precoci della sperimentazione clinica. Già oggi vi sono circostanze in cui per gli studi di fase I sono utilizzati pazienti “reali”. Questo avviene soprattutto quando il partecipare alla sperimentazione può tradursi in beneficio diretto per il paziente, come nel caso di pazienti in fase terminale o che non hanno altre opzioni terapeutiche (pazienti oncologici, con AIDS, ecc). Gli studi di fase I nel paziente presentano molteplici vantaggi: è infatti possibile eseguire all’interno di tali sperimentazioni (volte primariamente all’identificazione del dosaggio ottimale di farmaco) anche delle valutazioni più squisitamente di tipo farmacodinamico, che permettano di a) identificare biomarkers precoci di risposta alla terapia; b) favorire il rapido trasferimento di nuove strategie terapeutiche dai modelli sperimentali animali alla clinica (translational medicine), c) esplorare nuovi meccanismi d’azione e/o nuove possibili proprietà terapeutiche (studi proof of concept). Non a caso, questo tipo di studi è oggi fortemente incentivato sia dalle case farmaceutiche (attraverso grant e call for proposal) che da AIFA attraverso i bandi per la ricerca indipendente. Questo tipo di studi presenta vantaggi considerevoli anche nel caso di farmaci indirizzati alle patologie rare per molte delle quali, in assenza di reali trattamenti terapeutici, vi è necessità di determinare in tempi rapidi non solo la sicurezza ma anche la possibile efficacia di potenziali nuovi farmaci.

In conclusione la SIF ritiene che il rilancio della sperimentazione dei medicinali in Italia debba necessariamente passare da una crescita della ricerca di fase I, non come ricerca fine a se stessa ma come passaggio obbligato per l’accesso alle sperimentazioni di fase più avanzata. La corretta esecuzione di tali sperimentazioni, garantita sia dagli organismi centrali (ISS, AIFA) che locali (comitati tecnico-scientifici, comitati etici), se perseguita nonostante le campagne di disinformazione, potrà portare sicuramente benefici alla salute pubblica. 

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