Sapere abbuffarsi ha garantito la sopravvivenza dell’uomo quando la velocità faceva la differenza tra la vita e la morte, con un predatore da una parte e un compagno pronto a fregarti il pasto dall’altra. Quindi, la natura, durante l’evoluzione, ha «prescelto» chi aveva capacità metaboliche e strategiche per assorbire meglio zuccheri e grassi. Tuttavia, nella società occidentale ricca, il problema della sopravvivenza non esiste più: torte di crema e panna e cibi calorici, come se ne trovano al fast food, sono continuamente alla portata. E tutti faremmo una piccola eccezione. Proprio perché l’abbuffata è un istinto innato.
«Molti alimenti, soprattutto quelli ricchi di zuccheri, costituiscono una fonte di energia immediatamente disponibile per l’organismo e allo stesso tempo stimolano il rilascio di dopamina nel cervello, il neurotrasmettitore associato alla motivazione e al senso di gratificazione», spiega il team guidato da Silvana Gaetani (Prof.ssa di Farmacologia Università Sapienza di Roma) con Carlo Cifani (Prof. di Farmacologia Università di Camerino). Entrambi sono anche coordinatori del Gruppo di Lavoro «Obesità, Sindrome Metabolica e Disordini Alimentari» della Società Italiana di Farmacologia (SIF). La SIF è infatti nel bel mezzo dei lavori del suo 40° Congresso Nazionale.
La novità è che adesso una molecola potrebbe aiutare le persone con disturbi alimentari del tipo di cui abbiamo parlato e il razionale è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Neuropsychopharmacology. La molecola si chiama oleoiletanolamide, un farmaco che servirà a prevenire e contrastare il disturbo da alimentazione incontrollata.
La gratificazione è mediata, nel nostro cervello, dal neurotrasmettitore «dopamina». La dopamina viene rilasciata all’idea di mangiare, di fare sesso ma anche di fare shopping o assumendo stupefacenti come ecstasy e cocaina: è un po’ la molecola del piacere. Rifugiarsi nel cibo è per molte persone un modo per sfuggire alle emozioni negative, e gratificarsi attraverso i comportamenti che rilasciano dopamina può diventare automatico.
Nell’ambito dei disordini alimentari, il problema sorge quando mangiare non è più utile o un comportamento conviviale pro-sociale, ma diventa compulsivo, incontrollabile e ripetitivo, tanto da sfociare in una vera e propria patologia. «Si chiama Binge Eating Disorder (BED) il disturbo alimentare più comune, caratterizzato da episodi ricorrenti di abbuffate fuori controllo, analoghe a quelle della bulimia, non seguiti da atti compensatori o di eliminazione, come l’induzione del vomito o l’auto-somministrazione di lassativi – spiega Cifani. Chi ne è affetto spesso sviluppa nel tempo obesità, oltre a un marcato disagio psicologico, caratterizzato da depressione, ansia, bassa autostima o altri problemi che possono influenzare notevolmente la qualità della vita».
I trattamenti più significativi e attualmente disponibili per il BED prevedono una combinazione di psicoterapia e farmacoterapia e quest’ultima generalmente è basata su farmaci antidepressivi. Tuttavia, il tasso di ricaduta è ancora molto elevato perciò la ricerca ha drizzato le antenne. «Nel nostro laboratorio del Dipartimento di Fisiologia e Farmacologia della Sapienza – spiega Gaetani, docente alla Facoltà di Farmacia e Medicina – da molti anni studiamo le proprietà farmacologiche dell’oleoiletanolamide, un lipide prodotto dal nostro intestino, in seguito a un pasto, e che segnala al nostro cervello una condizione di sazietà, in modo da limitare il consumo eccessivo di cibo e da stimolare il nostro metabolismo a bruciare i grassi».
Con questo nuovo studio – continuano Adele Romano e Maria Vittoria Micioni Di Bonaventura, ricercatrici di Sapienza e di Università di Camerino, rispettivamente, e co-primi autori della pubblicazione – suggeriamo che questa molecola potrebbe essere in grado di prevenire e contrastare il BED, modulando le funzioni di specifiche aree del cervello attivate dallo stress o da stimoli gratificanti. In Europa e in Italia non esistono farmaci approvati per il BED, a fronte del fatto che, nel nostro Paese il 3.5% per cento delle donne e il 2% per cento uomini ne è affetto. Gli antidepressivi, di fatto, non sono efficaci per questo disturbo perché le ricadute che si registrano sono troppo elevate.