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Come si cura il dolore? Alla scoperta di morfina, Cannabis e monoclonali

12 febbraio 2021

Come si cura il dolore? Alla scoperta di morfina, Cannabis e monoclonali
Il dolore cronico è una patologia che ha molte sfaccettature e per la quale le terapie farmacologiche sono in costante evoluzione. Riguarda milioni di pazienti come conseguenza di patologie gravi come le neoplasie ma anche persone per tutti gli altri aspetti assolutamente sane, ma che tuttavia vanno incontro a dolori fortissimi con cadenza ciclica come per esempio le cefalee. Il 40° congresso nazionale della Società Italiana di Farmacologia è particolarmente attento a questi problemi che verranno trattati in occasione di simposi, letture magistrali e tavole rotonde con esperti nazionali e internazionali della farmacologia del dolore. Qui intervistiamo gli esperti del Gruppo di Lavoro sul Dolore della Società Italiana di Farmacologia.

Cosa può fare la farmacologia per il dolore cronico. Lo chiediamo alla prof. Patrizia Romualdi dell’Università di Bologna.

Il dolore cronico costituisce una delle cause più frequenti di richiesta di intervento medico. Il dolore è associato a limitazioni nelle attività, perdita di giorni lavorativi, ansia, depressione e ridotta qualità della vita. Si ritiene che circa il 20% dei cittadini dei Paesi più sviluppati soffrano di dolore cronico, con un enorme impatto sulla Società. In Italia, la legge 38 in vigore dal 2010 garantisce a tutti i pazienti con dolore cronico il diritto all’accesso alle cure, sia palliative oncologiche sia di terapia del Dolore, attraverso la realizzazione di una rete integrata di servizi.

Il problema del dolore cronico è anche un problema di ridotta disponibilità di farmaci efficaci o con effetti collaterali ridotti. Studi recenti stanno portando allo sviluppo di molecole oppioidi più sicure per il paziente. Infatti, gli oppioidi, pur rappresentando la strategia terapeutica fondamentale, con un effetto analgesico accertato e maneggevolezza, non vantano un adeguato utilizzo nella pratica clinica corrente, perché presentano una serie di effetti collaterali, quali depressione respiratoria, stipsi, immunodepressione e fenomeni di tolleranza, dipendenza e potenziale d’abuso, che ne limitano l’utilizzo.

Prof. Paola Sacerdote, Università degli Studi di Milano, ci sono molecole nuove per sostituire gli oppioidi attuali?

In questo ambito, lo sviluppo di nuove molecole, correlate agli oppiacei (cioè dotate di potenza simile o superiore alla morfina e prive degli effetti collaterali e del potenziale d’abuso) ha portato alla identificazione dei cosiddetti “Biased agonists”.

Queste nuove sostanze sono in grado di separare i segnali che conseguono alla interazione con il proprio bersaglio molecolare (il cosiddetto recettore per gli oppioidi) e, in tal senso, di mantenere attivate le vie che permettono di “raffreddare” la percezione del dolore senza, al contempo, scatenare quelle che portano alla attivazione di una proteina chiamata beta–arrestina che sarebbe responsabile degli effetti collaterali.

Tra queste nuove molecole spicca la oliceridina (identificata anche dalla sigla TRV130), insieme a tante altre, ancora in fase di studio preclinico, ma con risultati molto promettenti.

Un dolore cronico di cui si sente spesso parlare come molto invalidante è quello oncologico. Prof. Diego Fornasari, Università degli Studi di Milano ci può dire cosa c’è e cosa ci sarà a disposizione di questi pazienti?

Gli oppioidi costituiscono attualmente i farmaci di riferimento per il trattamento del dolore oncologico, un dolore generalmente di elevata intensità che spesso presenta sia una componente nocicettiva che neuropatica. Il dolore oncologico deve essere trattato coprendo le 24 ore e per tale motivo abbiamo non solo molecole oppioidi diverse, ma anche formulazioni diverse.

La disponibilità di molecole diverse è poi fondamentale per realizzare la rotazione degli oppioidi, cioè la sostituzione di un oppioide al quale il paziente non risponde più o risponde meno, a causa dell’instaurarsi del fenomeno della tolleranza, con un altro oppioide.

Il dolore oncologico, oltre alla sua componente di fondo, può presentare episodi di esacerbazione, definiti dolore episodico intenso. Si tratta generalmente di un dolore di breve durata, circa 30 minuti, di intensità estrema, che si può verificare anche 3-4 volte al giorno in pazienti correttamente trattati con oppioidi e con un dolore di base ben controllato. Questo dolore, estremamente debilitante per il paziente, viene trattato con oppioidi a rapida insorgenza d’azione, che altro non sono che formulazioni transmucosali (nasali o buccali) di fentanyl, un farmaco 100 volte più potente della morfina). La via transmucosale è estremamente rapida e il fentanyl raggiunge rapidamente il cervello, svolgendo qui la sua azione analgesica, e viene poi rapidamente eliminato: ha cioè un effetto della durata strettamente necessaria a “coprire” l’episodio di dolore intenso.

La terapia oppioide del dolore oncologico si è arricchita in questi ultimi anni di una nuova classe farmacologica chiamati PAMORA (dall’inglese: periferally acting mu opioid receptor antagonist). Si tratta di farmaci come i ben noti naloxone o naltrexone (farmaci usati, per esempio, per contrastare l’overdose di eroina), opportunamente modificati per non interferire con l’analgesia. Essi vengono somministrati con l’agonista oppioide e impediscono a quest’ultimo di legarsi ai recettori intestinali, che sono responsabili del più importante effetto avverso degli oppiacei, la stipsi. Purtroppo, accanto alla stipsi, altre reazioni avverse possono spesso accompagnare la terapia con oppiodi e pertanto si attendono nuove molecole che pur mantenendone le proprietà terapeutiche, presentino un ridotto numero di reazioni avverse e comunque di ridotta intensità, farmaci sono noti come “biased agonist” descritti di sopra.

Uno dei dolori più invalidanti che colpisce milioni di persone in Italia e nel Mondo è certamente l’emicrania. Chiediamo al prof. Pierangelo Geppetti dell’Università di Firenze, cosa si sa della terapia farmacologia di questa patologia.

L’emicrania è una patologia dolorosa che affligge più di un miliardo di pazienti, di cui il 70% donne, con attacchi ricorrenti e disabilitanti di dolore cranico della durata di ore o giorni e accompagnati spesso da nausea/vomito, fono e fotofobia e a volte da sintomi neurologici definiti come aura.

I primi farmaci specifici come la metisergide nella profilassi di questa malattia sono stati introdotti negli anni ’50. A questi hanno fatto seguito i farmaci correntemente usati per la profilassi dell’emicrania (antiepilettici, beta-bloccanti, antidepressivi triciclici), tutti identificati grazie ad osservazioni casuali e per i quali il meccanismo della loro azione benefica non è noto.

Circa 40 anni fa un gruppo di scienziati della Università della California a San Diego scoprirono che il gene della calcitonina di neuroni sensitivi primari (quelli deputati alla percezione del dolore) dei gangli delle radici dorsali, vagali e trigeminali, a causa di mutazioni, produceva un peptide (in inglese: calcitonin gene related peptide, CGRP), che produce due effetti principali: vasodilata le arterie di piccolo calibro e sensibilizza i terminali nervosi dolorifici a qualsiasi agente, diventando così ipersensibili a stimoli innocui (allodinia) o lievemente dolorosi (iperalgesia).

Trenta anni di ricerca preclinica hanno portato allo sviluppo di piccole molecole che antagonizzano il recettore per il CGRP, e negli ultimi 15 anni numerosi studi clinici hanno dimostrato l’efficacia e la sicurezza nel trattamento dell’emicrania di 4 anticorpi monoclonali che bloccano il CGRP o il suo recettore. Si è così aperta per le pazienti ed i pazienti emicranici una nuova era in cui la loro sofferenza potrà avere una risposta farmacologica efficace e sicura.

Ci sono molti studi che supportano l’uso della cannabis come alternativa ai farmaci antidolorifici. Chiediamo ai Professori Livio Luongo dell’Università della Campania e Roberto Russo dell'Università Federico II di spiegarci questi aspetti.

L’uso della cannabis come farmaco è dovuto alla scoperta che il nostro organismo è dotato di un sistema che include sostanze (denominate endocannabinoidi) simili per effetto ai principi attivi della cannabis e una “rete” di recettori per queste sostanze identificati dalle sigle CB1 e CB2. Agendo su questo sistema, i cannabinoidi (sia quelli endogeni che quelli della cannabis) sembrano essere efficaci in quelle forme di dolore, spesso refrattarie agli oppiodi, come il dolore neuropatico, agendo in maniera importante sulla componente affettiva della patologia. Di conseguenza, pazienti riportano un distacco dall’attesa della stimolazione dolorosa, quali ansia, depressione e deficit cognitivi che caratterizzano diverse forme di dolore cronico.

Esistono diverse varietà di Cannabis medicinale. La differenza tra le varietà è il titolo in principi attivi (quelli identificati dalle note sigle THC e CBD). Esistono varietà contenenti un maggior quantitativo di THC e basso CBD, alcune con contenuto bilanciato dei due principali composti e altre che contengono un maggior quantitativo di CBD rispetto al THC. Il prodotto è preparato nelle farmacie e dispensato in diverse formulazioni galeniche (capsule, cartine, colliri e altre) previa prescrizione da parte del medico.

L’olio di Cannabis è probabilmente la preparazione più utilizzata in ambito clinico. Il dosaggio segue la legge dello “start low and go slow”, ossia si inizia con una quantità minima e si incrementa lentamente fino a raggiungere un dosaggio efficace e tollerato dal paziente. La ricerca sulla Cannabis e sulla sua composizione è in continua evoluzione grazie anche alla possibilità di utilizzare nuove tecnologie che consentono l’identificazione di nuovi composti minori, e la possibilità di selezionare i semi per ottenere varietà in grado di produrre un composto rispetto ad altri. Esiste tuttavia la necessità che la ricerca clinica fornisca dati sufficienti per poter indirizzare meglio l’utilizzo e migliorare il profilo rischio/beneficio di queste molecole.

Quanto c’è di vero che l’uso della cannabis possa portare a alterazioni del cervello? Lo chiediamo alla prof. Miriam Melis, Università di Cagliari.

In merito, basterebbe forse dire semplicemente che il nostro cervello ha naturalmente una struttura deputata a raccogliere lo stimolo dei prodotti della cannabis, i cannabinoidi. Questa struttura è chiamata recettore CB1 ed è il recettore accoppiato alla proteina G (il sistema che utilizza per funzionare) maggiormente espresso nell’encefalo. Ne consegue che gli effetti dell’uso di cannabis (il più noto dei suoi costituenti è naturalmente il THC), non possono non avere conseguenze sul funzionamento del nostro cervello. Ecco perché il THC è la droga più usata nel mondo (si stima ci siano 192 milioni di consumatori abituali) nelle fasce d’età compresa tra i 15 e i 64 anni. Per confronto, i consumatori abituali di derivati dell’oppio (perlopiù morfina e eroina) sono “solo” 58 milioni.

Mentre adulti e anziani sembrano risentire poco di alterazioni al cervello, la giovane età rappresenta un momento di estrema vulnerabilità del cervello esposto alla cannabis. Numerosi studi, condotti sull’uomo, indicano la comparsa di alterazioni funzionali e morfologiche, soprattutto negli adolescenti, anche dopo una o poche esposizioni. Gli effetti deleteri a carico dell’encefalo sono inversamente proporzionali all’età e direttamente proporzionali alla frequenza dell’uso e alla qualità di cannabis consumata (intesa come percentuale di principio psicoattivo presente, il THC, nel preparato consumato). Ciò nonostante, giacché alcuni studi preclinici stanno valutando il potenziale terapeutico della cannabis in età avanzata, non possiamo escludere che presto avremo informazioni circa il suo potenziale in patologie tipiche di questa età.

Si sente sempre più spesso dire che per i dolori cronici si possono usare anche farmaci di origine “naturale”. Ma funzionano, su qualsiasi tipo di dolore cronico? Lo chiediamo alla prof. Carla Ghelardini dell’Università di Firenze.

La popolazione italiana presenta una prevalenza di pazienti affetti da dolori cronici del 21,7%, che corrisponde a circa 13 milioni di abitanti e tra questi sono le malattie osteoarticolari ad essere più frequentemente dichiarate. Negli ultimi anni si è diffuso in maniera significativa l’impiego di estratti vegetali, non tanto come strategia terapeutica da considerarsi alternativa, ma piuttosto come supporto agli analgesici tradizionali con l’obiettivo di ridurne il dosaggio.

In particolare gli estratti che sono entrati maggiormente in uso sono i seguenti: Harpagophytum procumbens (Artiglio del diavolo), Boswellia serrata (incenso), Curcuma longa, Commiphora (mirra), Echinacea purpurea ed angustifolia, Capsicum annum e frutescens (peperoncino), Zingiber officinalis (zenzero), Acmella oleracea ed Arnica montana.

Tali estratti, uniscono frequentemente all’azione antidolorifica ed antinfiammatoria, quella antiossidante, rubefacente e talvolta condroprotettiva. Queste sostanze naturali sono composte da un numero elevato di molecole, che agiscono in sincronia nel modo che meglio è rappresentato dal concetto di “sistema”. In questi sistemi l’effetto è diverso e spesso migliore della somma dei singoli componenti poiché comprende le proprietà derivanti dalle interazioni intermolecolari come il comportamento chimico fisico dell'intera composizione che può essere osservato solo quando il sistema è integrale.

Infine, ma sicuramente molto intrigante è la recente scoperta del ruolo del microbiota intestinale per il controllo del dolore addominale. Che si sa al riguardo e quanto funziona? Lo chiediamo al prof. Lorenzo Di Cesare Mannelli, Università di Firenze.

Il dolore viscerale addominale cronico o ricorrente rappresenta il più comune disturbo gastrointestinale, colpendo il 10% della popolazione inclusi bambini e adolescenti. È un sintomo trasversale nelle patologie a carico del sistema gastrointestinale che vanno da disturbi funzionali, come la sindrome dell'intestino irritabile (Irritable Bowel Syndrome, IBS), a malattie infiammatorie intestinali (Inflammatory Bowel Disease, IBD).

La gestione del dolore addominale rappresenta una esigenza terapeutica non soddisfatta né dai comuni analgesici né da farmaci mirati per il trattamento dei disordini intestinali. Sono allo studio cellule particolari dell’intestino che possono diventare bersagli terapeutici per trattamenti efficaci. In particolare sarà fatta luce sulle possibilità di regolazione farmacologica della glia enterica (il sistema nervoso dell’intestino). La modulazione di queste cellule nervose diventa un mezzo per interrompere la catena di eventi patologici che dalla prima risposta infiammatoria intestinale conduce alla persistenza di dolore.

Accanto alla componente nervosa c’è anche il sistema immunitario che rappresenta una chiave di volta nella regolazione del dolore e della sua percezione. L’intestino è, per dimensioni, la più grande interfaccia del nostro organismo con l’ambiente esterno ed è peculiare osservare che il filtro tra i due mondi è garantito da quel numero grandioso di microrganismi che compongono il microbiota intestinale. Abbiamo già le prime evidenze scientifiche della possibilità di trasferire «dolore» da un individuo all’altro mediante un trapianto di microbiota. Questi risultati aprono le porte a trattamenti analgesici basati sull’utilizzo di trapianti fecali.

 

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