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È possibile personalizzare il trattamento dei pazienti con tumore?

5 febbraio 2021

È possibile personalizzare il trattamento dei pazienti con tumore?
Di questo e della compagine delle figure professionali utili e integrate per definire la terapia dei casi di tumore si discuterà nell’ambito di simposi e di una tavola rotonda, in occasione del 40° Congresso Nazionale della Società Italiana di Farmacologia dal 9 al 13 marzo prossimi. Vediamo, assieme ad alcuni farmacologi, attivamente impegnati nella ricerca in questo campo, di avere qualche anticipazione.

 

Quando si soffre di una infezione batterica, molte volte facciamo un esame per sapere quale antibiotico usare. È possibile fare una cosa del genere quando abbiamo un tumore? Lo chiediamo al prof. Gianni Sava, componente il GdL della SIF “Farmacologia Oncologica”.

Negli ultimi anni la ricerca oncologica ha messo a punto una serie di strategie per fare cose paragonabili a quelle citate. Ancora non si fa un antibiogramma, come facciamo con i batteri prelevati dal tessuto infetto, ma facciamo cose simili per personalizzare il trattamento di un paziente con un tumore (quella che oggi si chiama terapia di precisione).

Prof. Sava, che vantaggi offre la terapia di precisione per i malati di cancro?

La terapia di precisone comporta diversi vantaggi: 1) una migliore efficacia del trattamento (cioè si cerca di capire quale trattamento funziona bene in quello specifico tumore e in gergo si parla di biomarcatori predittivi della risposta terapeutica), 2) di conseguenza, una prognosi più precisa ed affidabile, 3) una diminuzione degli effetti avversi del trattamento.

Questi risultati sono stati raggiunti negli anni grazie alle conoscenze crescenti sulla biologia dei tumori e alla messa a punto di nuove tecniche (ad esempio, sequenziamento) per l'analisi del DNA presente nelle biopsie tumorali. Questa analisi permette di capire quali mutazioni sono presenti nel tumore e qual è il loro tallone d'Achille.
Sappiamo anche valutare con test specifici il livello di geni espressi nel fegato per capire come il paziente trasforma i farmaci che gli diamo e, quindi, aggiustare la dose. In particolare, questi test consistono in analisi, dette “farmacogenetiche”, che trovano persone “particolari”.

In che senso le analisi farmacogenetiche trovano persone “particolari”? Lo chiediamo al prof. Giuseppe Toffoli, Direttore del Dipartimento di Farmacologia all’IRRCS CRO di Aviano.

Tutti constatiamo che noi, esseri umani, non siamo tutti uguali. C’è chi è più alto, chi più basso. C’è chi ha i capelli neri, c’è chi ce li ha rossi, e magari qualcuno ha una tonalità di rosso che tende al biondo. Nessuno di noi si sognerebbe di dire che il soggetto biondo è malato e quello moro no. Però tutti noi sappiamo che, in generale, i biondi hanno una carnagione chiara e, se si espongono al sole d’estate senza protezione, possono scottarsi con una probabilità più alta rispetto a quelli con una carnagione scura.

La diversità di noi esseri umani riguarda anche tante altre caratteristiche. Dal punto di vista della risposta ai farmaci, la scelta e la dose del farmaco viene fatta in funzione delle caratteristiche più comuni presenti nella popolazione. Per tornare all’esempio di prima, se vivo in Svezia, penserò prima di tutto ai soggetti biondi, se vivo in Italia, penserò prima di tutto ai mori. Dunque, ammettendo che esista un farmaco che deve essere dato ad una dose bassa ai biondi e ad una dose alta ai mori, decido di dare dosi basse agli svedesi e dosi alte agli italiani. In generale faccio bene, il problema è che, anche in Italia, esistono i biondi e in Svezia i mori. Quindi, alcuni pazienti verranno danneggiati dalla mia generalizzazione.

Rimanendo all’esempio fatto, la farmacogenetica permetti di scoprire i biondi in Italia e i mori in Svezia, in modo da dare la giusta dose a tutti. Uscendo dalla metafora, ci accorgiamo sempre più frequentemente che, usando le stesse dosi di farmaco antitumorale per tutti possiamo avere in alcuni pazienti effetti tossici anche a carico delle cellule normali o la riduzione/assenza di attività a carico delle cellule tumorali, dal momento che nel sangue di alcuni pazienti abbiamo livelli troppo elevati e, in altri, troppo bassi dei farmaci antitumorali. Quindi, la valutazione farmacogenetica permette di usare la giusta dose di farmaco, personalizzando il trattamento.

Quindi, prof. Toffoli, le analisi genetiche servono a decidere la dose di farmaco da somministrare.

No, non posso dire questo, sarebbe troppo riduttivo. Le analisi genetiche e quelle istopatologiche di un pezzettino di tumore servono anche, in parecchi casi, a decidere se un paziente beneficerà del trattamento con un farmaco. Generalizzando, queste analisi possono essere utili per due casi: 1) vedere se il tumore che deriva da tessuti sensibili all’influenza degli ormoni (mammella, ovaio, utero e testicolo) esprime ancora i recettori per gli ormoni. 2) Vedere se il tumore ha sulla sua superfice un recettore contro cui è diretto un farmaco che gli serve per crescere. Nel primo caso si possono usare dei farmaci noti con il nome di anti-ormoni, per impedire ai nostri ormoni di aiutare il tumore a crescere. Nel secondo caso si possono usare anticorpi monoclonali diretti contro questi recettori. L’anticorpo lega il recettore espresso dalla cellula tumorale e inibisce il suo funzionamento o, addirittura, segnala la cellula come estranea e favorisce la sua uccisione da parte di cellule del sistema immunitario. Ovviamente, questi anticorpi non vengono usati se il tumore non esprime quel recettore.

Mi sembra di capire che un paziente con il tumore, per essere curato al meglio, deve essere preso in carico da tante figure professionali diverse. Lo chiediamo al prof. Enrico Mini dell’Università di Firenze.

È evidente che oggi un paziente che si rivolge a un centro oncologico richiede l’intervento di diverse figure professionali, ciascuna con le sue specifiche conoscenze, per affrontare la sua malattia. Questo fatto comporta la necessità di trovare la giusta intesa tra tutte le professionalità per garantire la migliore assistenza terapeutica. Oggi l'oncologo clinico (il medico, il chirurgo e il radioterapista) non è solo. Al suo fianco lavorano esperti in diagnostica d'immagine (quelli che interpretano le analisi, tipo TAC, risonanza magnetica, ecografia, etc.), specialisti d'organo e anatomopatologi che mettono in comune le proprie competenze. È dal lavoro congiunto di questi specialisti che nasce il trattamento adeguato alla specifica situazione oncologica del singolo paziente. In realtà, accanto a questi specialisti che costituiscono il nucleo dei gruppi oncologici multidisciplinari, oggi si sente il bisogno di avere anche altre competenze per meglio definire la terapia da adottare. Si sente, in particolare, l'esigenza della presenza di esperti di biologia molecolare, di bioinformatica e soprattutto di farmacologia oncologica per supportare i dati delle analisi molecolari, cioè le caratteristiche molecolari del tumore che poi guidano la scelta dell’oncologo clinico (coadiuvato dal farmacologo) a identificare il farmaco o i farmaci più opportuni.

In particolare, che cosa fa il farmacologo clinico? Lo chiediamo alla prof. Amelia Filippelli dell’Università di Salerno

Oltre a tutto quanto detto dai miei autorevoli colleghi prima, il ruolo del farmacologo clinico in oncologia è proprio quello di valutare i dati relativi all'efficacia e alla tossicità dei farmaci antitumorali, avendo come riferimento i risultati degli studi clinici che hanno dimostrato il loro effetto e sulla base dei quali vengono poi autorizzati per uno o più tipi di tumore. Il farmacologo clinico opera quindi negli organi regolatori (per esempio nell’Agenzia Italiana del Farmaco, AIFA), ma anche nei tavoli di lavoro delle Regioni.

Il farmacologo clinico collabora nell’ambito degli studi sui farmaci che si svolgono anche dopo la loro autorizzazione alla vendita (nel gergo si chiamano studi post-registrativi) con lo scopo di verificare la loro efficacia effettiva nella “vita reale”, dove i pazienti non sono selezionati con parametri speciali, come avviene durante le fasi di sviluppo clinico dei farmaci, ma rappresentano una fotografia più eterogenea del genere umano che può trarre beneficio di quel singolo farmaco ma anche con attenzione alla qualità di vita dei pazienti. Il farmacologo è quindi importante per dare a ciascun paziente la migliore terapia possibile, tenendo conto se il paziente, accanto alla neoplasia, è affetto da deficit funzionali, da co-morbidità, cioè da altre patologie accanto a quella tumorale, come, per esempio, diabete, ipertensione e disturbi cognitivi che implicano l’assunzione di altri farmaci e/o medicazioni.

Nondimeno, il farmacologo clinico è utile anche per valutare l’impiego dei farmaci tenendo conto delle diversità di età dei pazienti e del genere, condizioni che possono influenzare la risposta alle terapie farmacologiche. Attua, in buona sostanza, la "Riconciliazione Terapeutica", cioè cerca di fare in modo che tutti i farmaci assunti dal paziente esplichino solo gli effetti favorevoli e per far ciò, a volte, deve suggerire al clinico di eliminarne qualcuno (gli anglo-sassoni lo definiscono deprescribing) o di sostituirlo con un altro che non avrà interazioni rischiose per il paziente. Il farmacologo clinico, inoltre, si occupa di farmacovigilanza, farmacoepidemiologia e farmacoeconomia, aspetti rilevanti per la pratica clinica, in quanto permettono di monitorare l’uso dei farmaci e stabilire le migliori condizioni d’uso evitando la somministrazione in pazienti nei quali non funzionano.

Preservare il paziente dall’uso di farmaci che sarebbero inutili nel suo caso, permette di garantire da subito l’accesso a terapie che funzionano. In caso contrario sarebbe una grave perdita di tempo, perché se il farmaco non funziona, il tumore continua a crescere, diventa più difficile aggredirlo successivamente e determina anche un inutile aumento dei costi dei trattamenti antitumorali senza nessun beneficio per il paziente.

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