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Note sull’efficacia dei 4 vaccini anti-CoViD-19 attualmente in uso

4 maggio 2021

Note sull’efficacia dei 4 vaccini anti-CoViD-19 attualmente in uso
Dopo gli studi di fase 3 l’efficacia dei vaccini è stata testata sul campo (real-world) in diversi modi e le sorprese non sono mancate. Inoltre, sono ormai chiari gli effetti positivi della vaccinazione nelle regioni dove è rilevante la percentuale di popolazione o di segmenti di popolazione vaccinati. Cerchiamo di capire meglio come si stanno comportando i vaccini, rispondendo ad alcune domande.

Quale tipo di efficacia del vaccino è stata valutata negli studi di fase 3?

Tradizionalmente, l’efficacia di un vaccino si misura valutando la protezione del soggetto vaccinato dalla malattia, intesa come comparsa di sintomi compatibili con la diagnosi (per capirci definiamola efficacia di tipo 1). Per accertare la causa della malattia, nel caso del CoViD-19, viene valutata la presenza dell’acido nucleico del virus SARS-CoV-2 nella mucosa nasale.
La protezione dalla malattia è stata valutata dagli studi clinici di fase 3 e ha dato risultati diversi per i 4 vaccini: efficacia del 95% per il vaccino di Pfizer-Biontech, efficacia del 94% per il vaccino di Moderna, efficacia del 67% per il vaccino di AstraZeneca e efficacia del 66% per il vaccino di Johnson & Johnsons (1-4).
Diverse considerazioni che analizzeremo in seguito, suggeriscono di non considerare “oggettivi“ (cioè incontrovertibili) questi valori, considerazioni che in parte possono rendere inconfrontabili i quattro vaccini.

Qual è l’obiettivo della vaccinazione?

Tutti gli studi clinici utilizzano, come parametro principale di valutazione, la protezione della malattia nel soggetto vaccinato; è quella più facile da verificare. Per la verità è addirittura ovvio che il motivo per cui sono stati preparati i vaccini non sia quello di impedire che le persone ammalino ma quello di impedire che ammalino di CoViD-19 grave. Infatti, la corsa ai vaccini si è scatenata quando è stato evidente che SARS-CoV-2 era in grado di uccidere un certo numero di pazienti infettati (che i dati italiani continuano a indicare in una percentuale attorno al 3%; 115937 morti su 3826156 infettati diagnosticati, come riporta il sito della Protezione Civile alla data del 16 aprile 2021).
La necessità della vaccinazione è resa ancora più urgente dalla mancanza di strategie terapeutiche capaci di salvare la vita ad un alta percentuale di pazienti con CoViD-19 grave, nonostante i cospicui investimenti anche in questo campo.

Qual è la comparabilità tra l’efficacia dei vaccini nel prevenire la CoViD-19 grave?

Dal momento che, fortunatamente, solo una piccola parte di pazienti sviluppano una CoViD-19 grave, gli studi di fase 3, per quanto condotti su un numero elevato di soggetti, hanno registrato solo un piccolo numero di soggetti con CoViD-19 grave. Dunque, l’efficacia del vaccino nell’evitare il CoViD-19 grave, per capirci definiamola efficacia di tipo 2, si è basata su numeri così esigui da non essere comparabili. Nel complesso dobbiamo però registrare con grande soddisfazione che tutti i vaccini testati hanno protetto la quasi totalità dei vaccinati dal CoViD-19 grave. Di solito, per convenzione, viene considerato CoViD-19 grave quello che costringe all’ospedalizzazione, non necessariamente solo quelli che finiscono in terapia intensiva.
Un vaccino ideale deve essere anche in grado di impedire che il soggetto vaccinato non si infetti (non permetta la riproduzione del virus nelle proprie mucose, ad esempio) quando viene in contatto con il virus e, dunque, divenga a sua volta fonte di contagio (detto in altri termini, il vaccino ideale dovrebbe impedire al soggetto vaccinato di diventare portatore sano del virus). La protezione della malattia dalla infezione asintomatica/paucisintomatica (per capirci definiamola efficacia di tipo 3) è quella più difficile da verificare ed è stata valutata solo in uno studio clinico di fase 3, con risultati che non consentono una conclusione definitiva.

Quali sono i problemi metodologici nella valutazione dell’efficacia di un vaccino durante gli studi di fase 3?

Lo studio della farmacologia ci dimostra che la comparazione dell’efficacia di due farmaci è molto complessa e va fatta su popolazioni sostanzialmente identiche. Ogni diversità tra le popolazioni studiate mette in dubbio la possibilità di comparare i due farmaci. L’approccio migliore per comparare due farmaci è quello di studiarli contemporaneamente sulla stessa popolazione che, tra l’altro, è opportuno abbia un alto grado di omogeneità e in cui i soggetti siano assegnati al gruppo di controllo o al gruppo di trattamento in modo del tutto casuale.
Lo stesso discorso deve essere fatto per la valutazione dei vaccini anti-CoViD-19. Possiamo infatti immaginare che il vaccino renda più resistente il sistema immunitario del soggetto vaccinato, ma questa resistenza è più quantitativa che qualitativa. In modo grossolano potremmo comparare l’effetto del vaccino ad una miglioria strutturale apportata ad un pilastro. Questa miglioria più aumentare di 100-1000 volte la resistenza del pilastro ma la resistenza finale del pilastro dipenderà dalla resisteza iniziale (la salute del sistema immunitario del soggetto) e dal carico che verrà messo sul pilastro (la carica virale con la quale il soggetto verrà contagiato).

In definitiva, quali sono i fattori che incidono sull’efficacia di un vaccino?

I principali fattori che incidono sulla efficacia di un vaccino, non dipendenti dal vaccino stesso, sono:
- Le abitudini della popolazione vaccinata, inclusa la propensione all’utilizzo di dispositivi di protezione personale (mascherine), la frequentazione di situazioni a rischio (spazi chiusi e affollati), la promiscuità voluttuaria o determinata dalle circostanze e dal reddito;
- Il tipo di occupazione lavorativa del soggetto vaccinato (la probabilità che frequenti soggetti affetti da CoViD-19); dunque, innanzitutto, il personale sanitario certamente il più esposto al virus;
- Il numero di soggetti infettati da SARS-CoV-2 (inclusi i soggetti asintomatici e paucisintomatici) in una determinata popolazione;
- La contagiosità della variante virale predominante nella popolazione;
- Lo stato di salute di una parte della popolazione vaccinata, con particolare riferimento a soggetti obesi, diabetici o immunodepressi o con stili di vita poco sani (fumo, alcol);
- L’età dei soggetti vaccinati;
- Il sesso e l’etnia (parametri che potrebbero non avere una rilevanza).
In definitiva, al variare dei fattori sopra-esposti, può variare l’efficacia del vaccino (soprattutto l’efficacia di tipo 1 e 2). L’esempio più noto è la variazione dell’efficacia del vaccino in popolazioni di età differente. È dunque chiaro che, se un vaccino fosse stato studiato solo su anziani e un altro solo su giovani (o anche prevalentemente su una popolazione costituita in maggioranza da una di queste due classi di età), l’efficacia del secondo sarebbe risultata superiore a quello del primo, ma la conclusione sarebbe stata erronea.
Tutti questi motivi portano Piero Olliaro, dell’Università di Oxford, a scrivere “although we know the risk reduction achieved by these vaccines under trial conditions, we do not know whether and how it could vary if the vaccines were deployed on populations with different exposures, transmission levels, and attack rates” cioè “nonostante conosciamo la riduzione del rischio ottenuta da questi vaccini durante gli studi clinici in quelle condizioni, non sappiamo se e come questa protezione possa variare se i vaccini saranno utilizzati (e fossero stati testati) su popolazioni con differenti esposizioni al virus, differenti livelli di trasmissione e differente contagiosità (5).
Dal momento che i vaccini sono stati studiati in tempi diversi e in Paesi diversi, l’efficacia derivata dagli studi di fase 3 non è comparabile dal punto di vista quantitativo. Non è cioè possibile affermare, sulla base di questi studi, che oggi ci siano vaccini per il SARS-CoV-2, per la prevenzione della CoViD-19, di serie A e di serie B. Gli studi di fase 3 ci dicono solo che un vaccino funziona e ci danno una indicazione di massima sulla sua efficacia nel prevenire la malattia.
Con questo non intendiamo sostenere che i vaccini sono tutti uguali. È però chiaro che l’unico modo per sapere se un vaccino funziona e, eventualmente, è meglio di un altro è quello di studiarlo sul campo, cioè vedere cosa succede una volta applicato su di una larga proporzione della popolazione che, di norma, include molte delle figure elencate di sopra. Nelle ultime settimane iniziamo ad avere alcuni di questi studi.

Ci sono anche altri problemi metodologici nella valutazione dell’efficacia di un vaccino sul campo?

Lo studio dell’effetto dei vaccini sulla popolazione fornisce indicazioni preziose ma comporta anche altri problemi metodologici. Noi ne vediamo principalmente due.
La dimostrazione che in una Nazione con un grande numero di vaccinati il numero di infetti, di ricoverati e di morti diminuisca è molto suggestiva dell’efficacia del vaccino. Negli Stati Uniti, Israele, e UK questo fenomeno è ormai evidentissimo.
D’altra parte, la diminuizione delle persone colpite dal virus può dipendere da fattori indipendenti dal vaccino quali il clima o una diversa politica sui comportamenti sociali. Il caso più clamoroso, da questo punto di vista, è quello degli Stati Uniti dove, l’incremento del numero dei vaccinati è temporalmente associato anche al cambio di atteggiamento del Presidente Biden nei confronti delle raccomandazioni relative all’utilizzo dei dispositivi di protezione personale e alle misure pubbliche di contenimento del virus. D’altra parte, in altri Stati non sembrano evidenti cambi di atteggiamento politico e sembra ragionevole attribuire l’evoluzione della pandemia al progredire del numero dei vaccinati. Comunque, vedremo alcuni studi interessanti a proposito che cercano di separare i due effetti.
Una problematica più sofisticata riguarda invece l’effetto del raffreddamento dell’epidemia anche sulla popolazione non vaccinata. Questo effetto tende a sottostimare l’efficacia del vaccino sulla popolazione vaccinata quando questa viene comparata con la popolazione non vaccinata dello stesso Paese. In questo caso potremmo dire che l’effetto del vaccino è almeno uguale a quello dimostrato dagli studi, se non superiore.

Qual è l’efficacia del vaccino sul contagio della popolazione anziana?

Valutiamola analizzando uno studio sulla popolazione israeliana. Troviamo molto interessante lo studio fatto da Rossman e colleghi (6) nel quale si valuta come la vaccinazione abbia modificato l’andamento dell’epidemia. Lo studio valuta tre fenomeni legati all’infezione da CoViD-19 (malattia, ammissione all’ospedale, ammissione all’ospedale con CoViD-19 grave) nella popolazione “anziana” (dai 60 anni in su) e “giovane” (sotto i 60 anni) in relazione alla percentuale di soggetti vaccinati (molto più alta quella degli “anziani” che quella dei “giovani”). I dati riportati nella pubblicazione sono frequentemente aggiornati in un sito tenuto dagli stessi autori e noi riferiremo dei dati aggiornati (7).
In Israele il picco dei contagi durante la terza ondata si è toccato il 17 gennaio con 8624 casi e il 12 aprile i contagi registrati sono stati 222. Questo risultato dipende certamente anche dal lockdown decretato l’8 gennaio, ma potrebbe dipendere anche dalla campagna vaccinale, iniziata prima di Natale e utilizzando esclusivamente il vaccino Pfizer-Biontech. In questo Paese, gli anziani sono stati privilegiati, nella campagna vaccinale, rispetto ai giovani, in modo tale che il 6 febbraio erano stati vaccinati con la seconda dose circa l’80% degli “anziani” (83% gli over 80, 90% le persone di 70-80 anni e 72% le persone di 60-70 anni) e solo circa il 37% dei “giovani” (tra i 59 e i 16 anni). Gli autori, per vedere se la campagna vaccinale avesse giocato un ruolo, hanno considerato l’andamento dei 3 parametri sopra-riportati in funzione dell’età. Già il 6 febbraio il numero di soggetti “anziani” contagiati era diminuito del 50% rispetto a quelli contagiati il 17 gennaio, mentre il numero di soggetti “giovani” contagiati era diminuito solo del 18% rispetto a quelli contagiati il 17 gennaio. Inoltre all’interno della stessa categoria d’età, i soggetti vaccinati, in regioni dove la campagna vaccinale era iniziata prima, sono risultati più protetti rispetto a quelli vaccinati dopo. Il 16 marzo il numero di pazienti “anziani” ricoverati in ospedale era diminuito dell’80% rispetto a quelli ricoverati il 15 gennaio, mentre il numero di pazienti “giovani” ricoverati in ospedale era diminuito solo del 40% rispetto a quelli ricoverati il 15 gennaio. E così, per effetto della vaccinazione, gli “anziani” ricoverati il 16 marzo per CoViD-19 sono stati circa la metà dei “giovani” mentre il 15 gennaio erano il doppio. Infine il 3 gennaio, prima che avesse effetto la prima dose di vaccino, il numero dei pazienti “anziani” ricoverati ogni giorno con CoViD-19 grave era più del triplo di quello dei giovani e il 16 febbraio il numero dei pazienti “anziani” ricoverati con CoViD-19 grave (vaccinati da almeno 1 mese) era uguale al numero dei giovani.
Gli autori sottolineano che i diversi andamenti nel gruppo dei “giovani” e in quello degli “anziani” non era stato osservato con i lockdown decretati prima della campagna vaccinale. Dunque, lo studio dimostra che l’effetto del vaccino è rilevante anche quando si valuta l’effetto nel mondo reale, almeno per quanto riguarda la protezione individuale dalla malattia e dalla malattia grave. Studiando il gruppo degli “anziani”, é rilevante notare che lo studio dimostra l’efficacia del vaccino Pfizer-Biontech anche sulla popolazione over 70, poco studiata dall’azienda farmaceutica durante lo sviluppo clinico con lo studio di fase 3.

Ci sono anche altri studi sulla popolazione israeliana?

Si, naturalmente. Un altro studio condotto in Israele, ha valutato la protezione individuale più che quella della comunità da parte del vaccino Pfizer-Biontech (8), uno studio che però non ha valutato la protezione individuale del personale medico e paramedico. In questo studio, circa 600 mila persone, vaccinate durante il periodo 20 dicembre 2020-1 febbraio 2021, sono state abbinate a controlli non vaccinati, in un rapporto 1:1, in base alle caratteristiche demografiche e cliniche.
L'efficacia stimata del vaccino, per i risultati dello studio valutabili a partire dal settimo giorno dopo la seconda dose, è risultata essere la seguente: per l'infezione documentata, 92%; per Covid-19 sintomatico, 94% (95% CI, da 87 a 98); per il ricovero, 87% (95% CI, da 55 a 100); per la malattia grave il 92% (95% CI, da 75 a 100). L'efficacia stimata in sottopopolazioni specifiche, valutata per l'infezione documentata e per il CoViD-19 sintomatico, era coerente tra i gruppi di età, con un'efficacia leggermente inferiore nelle persone con più co-morbidità.
Lo studio conferma e rafforza i dati dello studio di fase 3 effettuato dall’azienda farmaceutica. Unica informazione che non viene confermata è la protezione del soggetto vaccinato 12 giorni dopo la prima dose, che l’azienda farmaceutica aveva invece osservato nello studio di fase 3. Infatti, la protezione dei soggetti vaccinati dopo 14-21 giorni dalla prima dose oscilla tra la metà e un terzo della protezione osservata a partire dal settimo giorno dopo la seconda dose.

Cosa succede, invece, sulla frequenza del CoViD-19 grave nello studio sulla popolazione scozzese?

Lo studio (9) ha preso in considerazione gli scozzesi vaccinati tra l'8 dicembre 2020 e il 15 febbraio 2021, cioè 1.137.775 soggetti che rappresentano il 35% della popolazione scozzese (in realtà, di questi, sono risultati valutabili solo il 25% circa). I gruppi di soggetti più vaccinati sono stati quello che includeva le persone con più di 65 anni e quello dei pazienti fragili, anche se con meno di 65 anni. I soggetti con meno di 65 anni sono stati vaccinati prevalentemente con il vaccino Pfizer-Biontech mentre quelli sopra i 70 anni sono stati vaccinati di più con il vaccino AstraZeneca. In generale, sono state vaccinate più donne (31% delle donne di quelle età) che uomini (21% degli uomini di quelle età). Lo studio ha valutatato esclusivamente l’efficacia dei vaccini nel prevenire il ricovero per CoViD-19, dopo la somministrazione della prima dose, in funzione del tempo trascorso a partire dall’inoculo.
Come noto, in UK non è stata effettuata la seconda dose di Pfizer-Biontech dopo 21 giorni, come suggerito dalla casa produttrice.
L’efficacia del vaccino Pfizer-Biontech è massima (85%) dopo 28-34 giorni dalla prima dose per poi scendere leggermente nelle due settimane successive (68% e 64%). L’efficacia del vaccino AstraZeneca è massima (94%) dopo 28-34 giorni dalla prima dose e migliore dell’efficacia di Pfizer-Biontech nelle settimane precedenti. I dati relativi alle settimane successive alla settimana 28-34 non sono disponibili per questo vaccino, dal momento che la sua somministrazione è iniziata successivamente alla somministrazione del vaccino Pfizer-Biontech.
Se si limita l’analisi dell’efficacia alla fascia di popolazione sopra gli 80 anni, l’efficacia del vaccino Pfizer-Biontech e del vaccino AstraZeneca sono comparabili (81%) dopo 28-34 giorni dalla prima dose.
In conclusione, entrambi i vaccini dimostrano una ottima e comparabile efficacia nel prevenire il ricovero dovuto a CoViD-19.

Quanto è in grado di ostacolare la replicazione del virus e di contagiare una persona vaccinata?

Sono diversi gli studi che cercano di capire quello che è stato studiato pochissimo negli studi di fase 3: il soggetto vaccinato si infetta (asintomatico) con la stessa frequenza di un soggetto non vaccinato? E, se si infetta (asintomatico o sintomatico), è meno contagioso di un soggetto non vaccinato?
Per interpretare correttamente questi studi, occorre sottolineare che è ormai chiara la correlazione tra carica virale e infezione (cioè maggiore è il numero di virus che arrivano al soggetto, più è alta la probabilità che questo ammali e ammali gravemente, a parità di tutte le altre condizioni). Un problema metodologico, presente negli studi che valutano la presenza dell’RNA virale nei soggetti vaccinati e non, è che è impossibile capire se la presenza dello stesso livello di RNA in un soggetto vaccinato e non vaccinato indica la stessa possibilità di infettare. È infatti possibile ipotizzare che il virus, presente in un vaccinato, possa essere strutturalmente integro ma ricoperto di anticorpi e, per questo motivo, essere incapace di infettare. Questo dato deve essere tenuto presente, per evitare fraintendimenti e soprattutto per trarre le esatte conclusioni.
Riportiamo i risultati pubblicati.
In uno studio, effettuato sul personale sanitario israeliano, è stata valutata, a cadenza settimanale, la carica virale presente nella mucosa nasale (10). La conclusione degli autori è che la carica virale, nei vaccinati con il vaccino Pfizer-Biontech e positivi al SARS-CoV-2, è da 2 a 4 volte inferiore rispetto a quella dei non vaccinati.
Un altro studio, anch’esso condotto in Israele e compiuto usando dati provenienti da un solo laboratorio, è stata valutata la quantità di RNA virale presente in circa 16 mila tamponi nasali positivi per SARS-CoV-2 (11). L’osservazione da cui sono partiti gli autori è che, prima del vaccino, non era presente nessuna differenza nella carica virale riscontrata nella popolazione anziana e nella popolazione giovane. Hanno poi valutato la carica virale nella popolazione dopo che era iniziata la campagna vaccinale. Sapendo che, alla data scelta, erano stati vaccinati circa il 75% degli “anziani” (over 60) e circa il 25% dei “giovani” (under 60), hanno valutato la carica virale presente nei tamponi provenienti da pazienti “anziani” e nei “giovani”. Avendo trovato una carica virale inferiore nei tamponi provenienti da pazienti “anziani” rispetto a quella presente nei “giovani”, gli autori concludono che la vaccinazione riduce da 1,6 a 20 volte la carica virale presente nei soggetti infetti. In questo caso, occorre sottolineare che lo studio non è in grado di distinguere gli infetti asintomatici dagli infetti ammalati e quindi la conclusione degli autori va completata considerando che il numero di infetti sintomatici vaccinati è circa il 10% (cioè un decimo) di quello degli infetti sintomatici non vaccinati, confermando ulteriormente che i vaccinati contagiano di meno.
Un altro studio, condotto in Scozia, ha affrontato il problema in modo molto diverso, studiando famiglie in cui un genitore era un operatore sanitario. In particolare, gli autori hanno valutato la probabilità di contrarre l’infezione e di ammalare di CoViD-19 nelle famiglie in cui il genitore, operatore sanitario, era stato vaccinato (vaccino Pfizer-Biontech o AstraZeneca) e comparandola con la probabilità di ammalare in famiglie in cui il genitore operatore sanitario non era ancora stato vaccinato (12). Gli autori concludono che i membri delle famiglie in cui un genitore operatore sanitario è stato vaccinato hanno una riduzione del rischio di ammalare di CoViD-19 del 30%. Se consideriamo che i membri di una famiglia si possono contagiare anche fuori della famiglia e che l’operatore sanitario ha, per sua natura, la tendenza a proteggere i propri familiari (soprattutto se non vaccinato), il dato relativo alla diminuita contagiosità del soggetto vaccinato è certamente sottostimata e potrebbe essere decisamente superiore a quanto riportato.
Il dato più entusiasmante relativamente alla contagiosità degli operatori sanitari vaccinati è presente in un “Morbidity and Mortality Weekly Report” della CDC (Centro per il Controllo delle Malattie; USA) del 2 aprile 2021 (13). Lo studio, effettuato negli Stati Uniti nel momento in cui venivano utilizzati solo i vaccini di Pfizer-Biontech e di Moderna, deriva da tamponi settimanali di routine effettuati per valutare la presenza di una infezione da SARS-CoV-2, indipendentemente dallo stato dei sintomi e dall'esordio dei sintomi compatibili con la malattia associata a CoViD-19. Oggetto del test sono stati 3950 operatori sanitari (personale sanitario, primi soccorritori e altri lavoratori essenziali e in prima linea nella lotta alla pandemia, di otto località degli Stati Uniti) esaminati tra il 14 dicembre 2020 e il 13 marzo 2021. Tra i partecipanti non vaccinati, sono state osservate 1,38 infezioni per 1.000 giorni-persona. Al contrario, tra le persone completamente immunizzate (≥14 giorni dopo la seconda dose), sono state segnalate 0,04 infezioni per 1.000 giorni-persona e, tra le persone parzialmente immunizzate (≥14 giorni dopo la prima dose), sono state segnalate 0,19 infezioni per 1.000 giorni-persona. Quindi, trasferendola in percentuale, l'efficacia stimata del vaccino a mRNA, per la prevenzione dell'infezione, è stata del 90% 14 giorni dopo la seconda dose e dell'80% 14 giorni dopo la prima dose.
In conclusione, gli studi sopra riportati dimostrano che la vaccinazione è anche uno strumento importante per diminuire la diffusione del virus. Relativamente alla possibilità di contrarre malattia, nell’ultimo studio riportato di sopra, i vaccini sembrano offrire una protezione simile a quella attesa dai dati della sperimentazione clinica di fase 3 che ha portato all’autorizzazione al loro impiego nella popolazione, in altri studi l’effetto sembra essere meno rilevante anche se comunque presente.

Cosa possiamo quindi concludere?

Dopo gli studi di fase 3, i vaccini prodotti da Pfizer-Biontech, Moderna e AstraZeneca sono stati immessi nel mercato, testati nella popolazione generale e valutati da numerosi studi scientifici.
Gli studi sul campo confermano i dati ottenuti con gli studi di fase 3 e dimostrano, per la prima volta, un ruolo importante dei vaccini nello sfavorire il contagio, dando un contributo sostanziale all’immunità di gregge. Forse, il dato più rilevante è che tutti i vaccini sono molto efficaci nel prevenire il CoViD-19 grave e, di conseguenza la morte dei pazienti infetti. A nostro parere questo è il principale motivo per il quale il grande sforzo di progettazione e studio dei vaccini e la campagna vaccinale hanno avuto e hanno senso.
Come era logico aspettarsi, i numeri relativi ai diversi tipi di efficacia (inclusa la protezione da malattia) non sono identici a quelli ottenuti negli studi di fase 3. Da questo punto di vista sembra superficiale valutare la bontà di un vaccino, anche solo relativamente all’efficacia, comparando i numeri riportati nelle pubblicazioni sopra menzionate. Infatti, le poche comparazioni dirette non sembrano indicare una maggiore efficacia di un vaccino rispetto ad un altro.
Ovviamente gli studi sul campo continuano e nel giro di pochi mesi avremo altri dati sufficientemente chiari da discutere e che, con molta probabilità, andranno a confermare e sostanziare quanto sta emergendo e che abbiamo sintetizzato in questo documento.

 

Riferimenti bibliografici e sitografici


1. DOI: 10.1056/NEJMoa2034577
2. Doi: 10.1056/NEJMoa2035389
3. https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(20)32661-1/fulltext#
4. https://www.cdc.gov/coronavirus/2019-ncov/vaccines/different-vaccines/janssen.html
5. https://www.thelancet.com/journals/laninf/article/PIIS1473-3099(21)00075-X/fulltext
6. https://www.medrxiv.org/content/10.1101/2021.02.08.21251325v1
7. https://ourworldindata.org/vaccination-israel-impact
8. https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMoa2101765
9. https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3789264
10. https://doi.org/10.1038/s41591-021-01316-7
11. http://bit.ly/3aPIetS
12. https://github.com/ChronicDiseaseEpi/hcw/blob/master/vaccine_manuscript.pdf
13. https://www.cdc.gov/mmwr/volumes/70/wr/mm7013e3.htm

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