A cosa servono gli antidepressivi?
Gli antidepressivi servono a trattare la depressione, una malattia complessa, molto frequente e purtroppo spesso invalidante. Infatti, i sintomi della depressione sono molto variegati, diversi da paziente a paziente, così pure la sua gravità. Non conosciamo le cause, ma sappiamo che esiste una componente genetica e una legata all’ambiente che determinano delle alterazioni di diversi neurotrasmettitori nel cervello. La depressione non è l’unica indicazione per gli antidepressivi, dato che questi farmaci sono prescritti anche per altri disturbi psichiatrici, tra cui l’ansia, i disordini del comportamento alimentare come la bulimia o nella terapia del dolore, soprattutto neuropatico.
In quanto tempo funzionano?
Richiedono un tempo di circa 3-4 settimane per agire. Questo è un limite degli antidepressivi, dato che questa lunga attesa può scoraggiare il paziente, che può abbandonare la terapia. Il consiglio è di non desistere e attendere almeno un mese prima di aumentare le dosi del farmaco o cambiare antidepressivo. Sarà il medico a valutare la strategia più adatta in caso di insuccesso terapeutico.
Quali sono gli antidepressivi più utilizzati?
I più utilizzati sono i cosiddetti SSRI e SNRI, farmaci selettivi che agiscono sui neurotrasmettitori serotonina e noradrenalina. Il loro vantaggio deriva non dalla loro efficacia, che è simile a quella dei “vecchi” antidepressivi triciclici, ma dal fatto che, rispetto a questi, sono più tollerati, presentando minori effetti collaterali.
Perché è utile avere a disposizione altre molecole antidepressive?
Perché esiste una grande fetta di pazienti depressi (si calcola circa il 30-40%) che non risponde ai farmaci attuali o risponde poco. Gli attuali farmaci agiscono tutti sugli stessi sistemi di neurotrasmettitori nel cervello (noradrenalina e serotonina) e la depressione è una malattia molto complessa con diverse sfaccettature. Quindi, i pazienti resistenti (che non rispondono al trattamento) potrebbero trarre vantaggio da farmaci che agiscono in modo diverso.
Come si chiamano?
Ultimo arrivato è l’esketamina, una molecola simile ma non identica (i chimici la chiamano isomero) della ketamina, che è un vecchio farmaco utilizzato come anestetico ma anche come sostanza d’abuso dalle proprietà allucinogene. Altri farmaci sono sottoposti alle sperimentazioni cliniche per valutarne l’efficacia e la sicurezza. Uno di questi è il brexanolone, approvato negli USA per la terapia della depressione post-partum, condizione che porta troppo spesso al suicidio. E’ interessante rilevare che attualmente vengono valutati come antidepressivi alcuni farmaci allucinogeni come la psilocibina, presente nei “funghi magici”.
Che differenza c’è tra queste molecole e gli antidepressivi più comunemente usati?
Hanno dei meccanismi d’azione completamente diversi da quelli tradizionali. Agiscono sui neurotrasmettitori glutammato (esketamina) o GABA (brexanolone). L’esketamina è approvata per i pazienti resistenti alle terapie convenzionali. Il brexanolone è simile al progesterone, l’ormone della gravidanza, e sembra promettente nelle gravi depressioni del puerperio.
Queste nuove molecole danno effetti avversi? Se sì, quali?
Tutti i farmaci hanno effetti avversi, inclusi i vecchi e i nuovi antidepressivi. L’esketamina può dare confusione mentale e disorientamento transitori, capogiro e vertigini. Il brexanolone, non ancora disponibile in Europa, può indurre sonnolenza, secchezza della bocca, perdita di conoscenza. Anche per questi motivi nessuno di questi farmaci ad oggi può essere somministrato a domicilio ma solo in ospedale.
Gli antidepressivi devono essere prescritti?
Si, devono essere prescritti dal medico, che valuta le caratteristiche del paziente e sceglie il farmaco più adatto. Non devono essere mai assunti dal paziente in autonomia senza aver consultato un medico, preferibilmente uno specialista psichiatra.
Per finire, vuoi raccomandare qualcosa ai nostri lettori?
La raccomandazione è di non limitarsi alla terapia farmacologica. La depressione è una malattia invalidante, che può seriamente compromettere la qualità della vita e si trae beneficio non solo da una terapia farmacologica correttamente impostata ma anche da un supporto psicologico da parte di professionisti abilitati, che non dovrebbe mai mancare. La ricerca ci conferma che la combinazione di questi due approcci offre maggiori possibilità di successo terapeutico.
Profilo di Marco Pistis
Marco Pistis è Professore Ordinario di Farmacologia presso il Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Cagliari e direttore della Scuola di Specializzazione in Farmacologia e Tossicologia Clinica. Ha condotto parte delle sue ricerche presso il Department of Neuroscience, University of Dundee, UK. E’ membro del Consiglio Direttivo della Società Italiana di Farmacologia. La sua attività di ricerca è incentrata sulla neuropsicofarmacologia, attraverso lo studio di modelli di malattie neurologiche e psichiatriche e la caratterizzazione di nuovi target terapeutici. Negli ultimi anni la ricerca si è focalizzata sul ruolo del sistema cannabinoide endogeno e il suo possibile coinvolgimento nelle malattie neuropsichiatriche, in collaborazione con laboratori italiani e stranieri.