Un killer silenzioso tra le donne: diamo qualche cifra
Ogni anno circa 5200 donne in Italia ricevono una diagnosi di tumore dell'ovaio. Questo tipo di cancro è al nono posto per incidenza tra le forme tumorali e costituisce il 3% di tutte le diagnosi di tumore nel nostro Paese.
Purtroppo, benché il tumore dell’ovaio non sia nelle prime posizioni per frequenza, lo è per tasso di mortalità; infatti la sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi è oggi del 40% circa, mentre quella a dieci anni scende al 31%. Questo è dovuto al fatto che normalmente viene diagnosticato in fase già avanzata, e proprio a causa della aspecificità dei sintomi con i quali si manifesta viene chiamato killer silenzioso.
Perché questo tumore provoca così tante morti?
Il cancro dell’ovaio è una delle malattie più letali tra le donne. Infatti si manifesta con una sintomatologia molto aspecifica, come disturbi gastrointestinali, gonfiore addominale, disturbi urinari, che possono essere fuorvianti e quindi non essere tenuti nella giusta considerazione. Questo ovviamente ritarda la diagnosi fino a quando il tumore ha già raggiunto dimensioni notevoli e si trova in uno stadio avanzato. La diagnosi tardiva ovviamente influenza anche l’esito delle cure.
Ci sono dei fattori di rischio o predisponenti?
Come per altre patologie oncologiche oggi sono noti alcuni dei fattori di rischio per il cancro dell'ovaio; tra questi sembra esserci l'età, infatti la maggior parte dei casi viene diagnosticata dopo la menopausa, tra i 50 e i 69 anni. A questo si aggiunge la lunghezza del periodo ovulatorio, ossia un menarca (prima mestruazione) precoce e/o una menopausa tardiva e il non aver avuto figli.
Al contrario, tra i fattori protettivi vi sono il numero delle gravidanze, l'allattamento al seno e l’impiego prolungato di contraccettivi estroprogestinici, i quali diminuiscono il rischio d’insorgenza del tumore dell'ovaio. Tra i fattori di rischio, infine, vanno ricordate anche le alterazioni dei geni BRCA 1 e BRCA 2, che sono di origine ereditaria e che possono comportare una predisposizione allo sviluppo del tumore ovarico.
La percentuale di rischio di tumore ovarico è del 39-46% in caso di una mutazione del gene BRCA 1 ed è del 10-27% se la mutazione è sul gene BRCA 2.
Quali sono i trattamenti di elezione per il tumore dell’ovaio?
Le donne che ricevono una diagnosi di cancro dell'ovaio vengono solitamente sottoposte a intervento chirurgico, la cui entità può variare a seconda dello stadio della malattia. Di norma, è un intervento complesso che può durare molte ore, dal momento che il tumore si presenta in maniera diffusa su una ampia superfice della cavità addominale.
La chirurgia è una tappa fondamentale poiché, oltre che rimuovere il tumore, consente di eseguire accuratamente una stadiazione della neoplasia. Nelle pazienti con malattia in stadio avanzato, la chirurgia, oltre a valutare l’estensione della malattia, è finalizzata all’asportazione di tutto il tumore visibile (chirurgia citoriduttiva).
Per ridurre il rischio di ricomparsa del tumore, normalmente dopo l’intervento, si consiglia la chemioterapia che è tanto più importante quanto più è avanzato il tumore asportato. Esistono molti schemi chemioterapici, e farmaci come il paclitaxel e il carboplatino sono quelli più frequentemente usati e sui quali ci sono le maggiori casistiche per utilizzarli al meglio rispetto alle dosi e alla durata dei trattamenti.
Cosa fa la chemioterapia tradizionale?
Il paclitaxel è un agente antineoplastico che inibisce il processo di divisione cellulare e così impedisce che si formino nuove cellule. Il carboplatino invece danneggia il DNA delle cellule interferendo in tale modo con la loro crescita. Paclitaxel e carboplatino sono entrambi chemioterapici “tradizionali”, agiscono di più sulle cellule che si moltiplicano attivamente come le cellule tumorali uccidendole durante il loro normale processo di replicazione.
Tanto più veloce è la crescita della cellula tanto maggiore sarà l'effetto del farmaco. Tuttavia, essendo terapie aspecifiche, paclitaxel e carboplatino non sono in grado di distinguere tra le cellule buone e cattive nel nostro corpo e colpiscono anche le cellule sane dell'organismo come, ad esempio, quelle della pelle, dei bulbi piliferi, provocando gli effetti indesiderati tipici dei chemioterapici.
Quali altre possibilità allora?
Gli agenti chemioterapici tradizionali sono stati recentemente affiancati da nuove terapie a bersaglio molecolare come il bevacizumab, un farmaco anti-angiogenico che viene somministrato in alcune pazienti con malattia avanzata insieme alla chemioterapia.
Nelle pazienti con mutazione sui geni BRCA1/2, in cui la malattia si ripresenta, una nuova importante opzione farmacologica è rappresentata dagli inibitori di PARP, una classe di farmaci che interferiscono selettivamente con la capacità di correggere i difetti del DNA delle cellule mutate. “PARP” è un enzima deputato a riparare i danni subiti dal DNA permettendo così alle cellule di continuare a replicarsi.
I PARP-inibitori spengono l’attività di questi enzimi e impediscono il meccanismo di riparazione del DNA nelle cellule tumorali. In questo modo, se i danni al DNA non possono essere “riparati”, le cellule diventeranno “troppo danneggiate” e moriranno.
Due esempi di PARP inibitori sono olaparib e niraparib. Il primo viene utilizzato nelle pazienti con mutazioni dei geni BRCA mentre il secondo in entrambi i casi (BRCA con o senza mutazione).
Cosa succede quanto il tumore si ripresenta?
In circa il 75-80% dei casi, il tumore dell’ovaio si ripresenta. In caso di recidiva della malattia, le opzioni terapeutiche, oltre all'eventuale nuovo intervento chirurgico, prevedono la somministrazione degli stessi farmaci utilizzati in prima linea – principalmente paclitaxel e il carboplatino - affiancati dai nuovi farmaci, in base alla durata dell'intervallo libero da malattia e alle condizioni generali della paziente. Anche in caso di recidiva l’obiettivo è quello di ridurre la massa del tumore il più possibile.
Come si somministrano i farmaci per trattare il tumore ovarico?
I PARP inibitori sono somministrati per via orale, un chiaro vantaggio rispetto a tutti i farmaci di cui si è parlato sopra (paclitaxel, carboplatino e bevacizumab) che richiedono una somministrazione per via endovenosa in una struttura specializzata.
Inoltre, in un numero limitato di centri in Italia, viene proposta la cosidetta PIPAC - Pressurized Intraperitoneal Aerosolized Chemotherapy. Nello specifico, attraverso una laparoscopia i chemioterapici vengono introdotti sotto forma di aerosol nell’addome della paziente. La nebulizzazione e la pressurizzazione del farmaco aumentano la sua capacità di penetrazione e rendono la terapia più efficace, gli effetti collaterali sono ridotti poiché le concentrazioni di chemioterapico sono un decimo rispetto a quelle abitualmente impiegate e la ridotta invasività rende l’intervento ripetibile.
Verso il futuro
Fino ad oggi è stato difficile trovare dei bersagli specifici per disegnare nuove molecole terapeutiche efficaci nel combattere questa malattia. Tuttavia la ricerca sta raggiungendo traguardi importanti e molti studi clinici sono in corso per identificare nuove strategie terapeutiche.
È importante rivolgersi ai centri di riferimento regionali che vedono annualmente casistiche importanti dal punto di vista della numerosità e sono in grado di consigliare la migliore strategia terapeutica sulla base delle specifiche caratteristiche individuali della paziente. Molto spesso, inoltre, questi centri hanno in corso sperimentazioni con nuovi farmaci e questo rappresenta una ulteriore opzione per i pazienti, soprattutto nel caso di tumori refrattari ai farmaci già noti.
Riferimenti bibliografici:
González-Martín et al, N Engl J Med 2019; 381:2391-2402