Cominciamo con il chiarire cosa si intende con microbiota intestinale.
Il microbiota intestinale, ci spiega il prof. Giuseppe Esposito, è ciò che più comunemente chiamiamo “flora intestinale”. Si tratta dei microrganismi presenti nell’intestino. Comprende batteri ma anche virus, protozoi e funghi. Questi microorganismi producono fattori importanti come le vitamine, controllano la digestione, proteggono la mucosa intestinale e svolgono funzione immunitaria. Il microbiota può avere caratteristiche differenti in ciascun individuo, in funzione del patrimonio genetico, del tipo di parto alla nascita, del territorio e cibo così come delle abitudini e comportamenti. Eventi stressanti, farmaci, dieta, variazioni ormonali sono tutti fattori che possono modificarlo, dando origine ai processi infiammatori.
Cosa accade quando il microbiota subisce modificazioni?
L’impoverimento del microbiota, continua il prof. Esposito, potrebbe essere responsabile di patologie come il cancro del colon, le malattie autoimmuni, l’obesità, il diabete, patologie depressive e disturbi d’ansia e malattie neurodegenerative. La barriera intestinale è importante per la difesa dell’organismo ed è costituita dal microbiota, dalla mucosa e da cellule appartenenti al sistema immunitario. Una dieta povera di fibre può indebolire il microbiota, portando a ridurre il muco che protegge la parete intestinale. Quando la permeabilità della barriera intestinale viene alterata, i pazienti possono andare incontro a infiammazione e passaggio di sostanze dannose dall’intestino al sangue, influenzando negativamente la funzione di diversi organi, incluso il cervello.
Esiste quindi una relazione tra il microbiota e il sistema nervoso centrale? Qual è il ruolo del microbiota intestinale nell’insorgenza delle malattie del cervello?
Ancora non conosciamo bene quali siano le vie utilizzate dal sistema nervoso enterico (le varie ramificazioni di neuroni presenti a livello del digerente) per comunicare con il sistema nervoso centrale (il cervello) puntualizza il prof. Esposito. Sembra che la comunicazione avvenga tramite il nervo vago e l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (è l’asse che sovrintende, tra l’altro, alla risposta reattiva agli eventi stressanti). Oggi sappiamo che, alla base di patologie quali malattia di Parkinson, Alzheimer, Sclerosi Laterale Amiotrofica e Sclerosi Multipla ma anche deficit d’apprendimento, dello spettro autistico e dei disturbi comportamentali legati alle emozioni, in alcuni pazienti ci sono alterazioni del microbiota e delle cellule deputate al controllo delle risposte immunitarie. Sappiamo anche che queste modifiche del microbiota possono anticipare di anni lo sviluppo di tali alterazioni nella componente cerebrale (nello specifico la substantia nigra) dei pazienti con malattia di Parkinson. Analoghe ipotesi sono allo studio per la malattia di Alzheimer.
È stata evidenziata una relazione tra microbiota e disturbo da stress post traumatico?
Il disturbo da stress post-traumatico, ci spiega il dott. Sebastiano Alfio Torrisi, è una malattia psichiatrica debilitante nella quale il paziente può rivivere il ricordo del trauma, evita situazioni o stimoli che possono ricondurre al trauma, va incontro ad alterazione cognitiva e dell’umore. Le donne sembrano essere più colpite. L’infiammazione che si genera, in seguito all’esposizione ad eventi traumatici, può influenzare negativamente l’attività dei circuiti neuronali e la neurotrasmissione nelle regioni del cervello responsabili della paura, dell’ansia e delle emozioni. Alterazioni del microbiota intestinale possono contribuire ad aumentare gli stati infiammatori a livello del sistema nervoso centrale. E’ inoltre possibile che uno stato di infiammazione precedente al trauma, dovuta ad esempio a maltrattamento nell’infanzia, disastri naturali, violenza, separazione dei genitori, basso stato socioeconomico, possa favorire lo sviluppo della malattia e aggravare i sintomi.
Quanto sono utili i farmaci antidepressivi nella depressione associata a scompenso del microbiota?
La depressione, ci spiega la prof. Annamaria Cattaneo, è spesso correlata a disbiosi, anomala risposta allo stress, ridotta neurogenesi e neuroinfiammazione. In questo caso i farmaci antidepressivi possono avere un ruolo. La ketamina, un farmaco antidepressivo di recente acquisizione, ha mostrato di regolare la comunicazione tra il microbiota intestinale e il sistema nervoso. La ketamina contribuisce ad aumentare il numero delle connessioni tra le cellule nervose e a favorire la trasmissione neuronale, oltre a limitare e prevenire l’infiammazione. Considerato il ruolo chiave dell’infiammazione nella patogenesi della depressione e nella risposta al trattamento e il legame che la lega al microbiota, è allo studio l’ipotesi di integrare un farmaco come minociclina, un antibiotico con lo scopo di regolare la flora intestinale a livello intestinale.
Quanto è importante la dieta e un approccio nutraceutico per mantenere un microbiota sano?
Il microbiota intestinale di ciascun individuo, chiarisce la prof.ssa Giuseppina Mattace Raso, è unico per tipo e numero di specie batteriche presenti e si modifica con l’età in funzione dello stile di vita, peso corporeo, terapie farmacologiche. In particolare, il rapporto tra Firmicutes e Bacteroidetes, cioè i batteri maggiormente presenti, ha un forte impatto sul benessere dell’individuo e sulla risposta alle terapie. Una dieta con cibi calorici contenenti grandi quantità di zuccheri, grassi e proteine e carenti in fibre influenza i processi metabolici del microbiota e riduce la sua biodiversità. Per fare un esempio, nella popolazione obesa aumentano i Firmicutes a spese dei Bacteroidetes (la misura di questo rapporto è un indicatore per l’obesità) e, mentre i Bacteroidetes traggono nutrimento dalle fibre, i Firmicutes lo fanno da grassi e zuccheri favorendone l’assorbimento e potenzialmente aumentando i livelli cellulari di stress ossidativo, infiammazione ed alterazione della funzione dell’insulina.
Come possiamo intervenire sul microbiota per curare le patologie?
Una strategia è quella del trapianto fecale, spiega la prof.ssa Mattace Raso, cioè il rimpiazzo del microbiota con uno ottenuto da individui sani. Una criticità in tale approccio riguarda la difficoltà nel definire un microbiota sano e la possibilità di attecchimento del microbiota del donatore nell’intestino del paziente. Una procedura più frequente consiste nell’uso dei probiotici, cioè batteri con funzione benefica sull’organismo, o dei prebiotici, cioè sostanze di origine alimentare che selezionano la crescita batterica nell’intestino. Tali interventi mirano all’arricchimento del microbiota intestinale di batteri «buoni» a scapito dei batteri «cattivi», per migliorare lo stato di salute. Anche in questo caso la risposta del paziente dipende dal microbiota intestinale residente e da una serie di caratteristiche individuali che hanno un ruolo fondamentale nell’ottenimento del successo terapeutico, come dimostrato da diversi studi. Ricordiamo però che la dieta è il primo rimedio per efficacia. Un microbiota ben nutrito tramite una corretta alimentazione (cioè con l’assunzione fibre, legumi, frutta, verdura, cereali integrali, prodotti di origine vegetale) favorisce la crescita di batteri in grado di competere nell’intestino con i batteri patogeni e contribuire al mantenimento dello stato di salute.
In conclusione, quali potrebbero essere gli sviluppi futuri per la prevenzione e la cura di patologie collegate alla modificazione del microbiota intestinale?
Al momento, spiega la prof.ssa Mattace Raso, ci sono alcune potenziali nuove strategie terapeutiche. La prima riguarda l’impiego di probiotici “su misura” di nuova generazione, prodotti grazie allo sviluppo di più efficienti metodi di coltura batterica, sequenziamento genico e nuovi strumenti per studiare i genomi batterici, che possono contribuire a proteggere l’individuo da specifici disordini o rispondere a particolari esigenze metaboliche. Tra tutti, sicuramente l’Akkermansia muciniphila ed il Faecalibacterium prausnitzii sembrerebbero le specie più promettenti per il mantenimento del peso corporeo e l’indice glicemico e per il trattamento delle patologie intestinali infiammatorie croniche, rispettivamente. La seconda strategia consiste nell'adottare un ceppo probiotico ben caratterizzato e utilizzarlo come vettore per rilasciare direttamente nel lume intestinale farmaci antinfiammatori o immunosoppressori. Questo approccio, che implica l’uso dei farmaci a dosaggi con minori effetti collaterali, è stato proposto per curare le malattie infiammatorie intestinali o e varie forme di colite. In terzo luogo, ci sono farmaci che hanno un’azione diretta sulla composizione del microbiota come ad esempio alcuni farmaci antidiabetici quali i tiazolidinedioni (TZD) e metformina, che sono proposti nelle infiammazioni croniche intestinali. Per finire, chiosa il prof. Esposito, recenti studi mostrano che alcune sostanze di origine vegetale come la curcumina e i polifenoli del tè verde (ad azione antiinfiammatoria), la boswellia ed artemisia (ad azione antiinfiammatoria ed antiossidante) hanno mostrato risultati promettenti nel controllo dell'infiammazione gastrointestinale e nel mantenimento della remissione clinica dei sintomi.
Di tutto questo si parlerà durante il 41° Congresso della Società Italiana di Farmacologia, di nuovi studi sull’utilità di diversi farmaci e prodotti nutraceutici, così come dell’uso di prebiotici e probiotici di nuova generazione che potrebbero rappresentare il futuro della medicina personalizzata nella cura delle malattie infiammatorie croniche intestinali dovute all’alterazione del microbiota intestinale.